25 aprile 2024

"Atti impuri" di Goffredo Parise: un'invettiva a metà

Sebbene la critica lo consideri un romanzo minore, nelle intenzioni di Parise doveva avere ben altra importanza, tanto che gli dedicò addirittura due stesure, la seconda a quasi vent'anni di distanza dalla prima. Il titolo del 1958 era infatti Amore e fervore, laddove Atti impuri ne è la riscrittura del 1973 per Einaudi. Nei propositi dell'autore doveva chiudere l'ideale trilogia iniziata con Il prete bello e proseguita con Il fidanzamento. Con l'edizione del 1973, peraltro, venne recuperato il titolo originariamente scelto e il finale fu ampiamente rimaneggiato.
A costo di esprimere un giudizio tranchant, ritengo che Atti impuri trasmetta al lettore un'impressione di incompiutezza, in primis per il finale frettoloso che lascia in sospeso molte domande. A ben vedere, però, è il libro nel complesso a essere adombrato da un velo di difetto. È come se Parise avesse voluto lanciare un j'accuse contro certa borghesia cattolica italiana, ma con le armi spuntate, perché la critica sociale è stata trasfigurata in resoconto grottesco. Ciò non è un male in sé, lo è nella misura in cui il racconto non spinge decisamente neppure nella direzione comica; aleggia, per così dire, in un limbo tra la sferzata polemica e la satira.
Come si evince dal titolo provocatorio, al centro della vicenda c'è una relazione peccaminosa, quella tra Marcello e Gianna. Il primo è segretario di un piccolo comune della provincia veneta, nonché ultimo rampollo di una famiglia di industriali, i Lazzarotto, titolari dell'omonima cereria "pontificia" che rifornisce di candele le chiese e i conventi del circondario. Marcello è stato educato a una religiosità opprimente e al tempo stesso infantile: persino l'amore coniugale gli appare peccaminoso, al punto da respingere con terrore gli approcci della moglie. Responsabili di questa educazione castrante sono gli anziani zii che lo hanno allevato dopo la morte dei genitori. L'incontro casuale in un parco con l'infermiera Gianna, però, è fatale al suo mondo di granitiche certezze: il desiderio della carne prevale sulle convinzioni di fede e sgretola il castello di sabbia delle convenzioni e della rispettabilità. Ecco il paradosso: pur rifiutando di fatto ogni relazione coniugale, Marcello si trova a viverne una extraconiugale. Sono questi gli atti impuri del titolo.
Ho esordito parlando di incompiutezza, con riferimento alla verve polemica del romanzo. Si consideri il protagonista, Marcello Lazzarotto. È come se l'aspetto macchiettistico del suo carattere svalutasse in qualche modo la critica sociale che Parise voleva lanciare. Di fronte a un giovane che si confessa per ogni piccola manchevolezza e che trascorre le sue giornate nel terrore di commettere peccati irreparabili, viene spontanea una risata di scherno, se non addirittura una smorfia di insofferenza. Il modo in cui Marcello vive la propria religiosità è così ottusamente evirante da essere esso stesso una punizione, senza che sia necessario aggiungervi una dose di polemica. Paradossalmente si finisce quasi per empatizzare con lui, o comunque per non biasimarlo per la sua fede bambinesca e ingenua. Personaggi ancora più grotteschi sono poi gli zii di Marcello: strambi, bizzarri, carnevaleschi, una sorta di famiglia Addams all'italiana.
Dove invece il bisturi di Parise incide maggiormente è nello scoperchiare la grettezza e la meschinità della provincia veneta, che poi non è altro se non un piccolo spaccato della provincia italiana. Nella cittadina in cui è ambientato il romanzo, gli abitanti sono ammantati da una rispettabilità fittizia, destinata a cadere sotto la scure delle chiacchiere non appena un sospetto aleggi su di loro. È il caso proprio di Marcello, universalmente riconosciuto come uomo pio e timorato di Dio, salvo poi venire additato come il peggiore peccatore per il solo fatto di essere visto in compagnia di Gianna Ciriaci. E a maggior ragione è il caso della Ciriaci; di lei sappiamo solo che è un'infermiera e che non vuole legarsi a un uomo, come la morale corrente imporrebbe. Ciò basta per qualificarla come prostituta agli occhi maligni dei suoi concittadini. Su questo aspetto, più che su quello del bigottismo, Parise sembra cogliere il segno e lasciare una traccia nel lettore, che altrimenti ben difficilmente ricorderebbe a lungo questo romanzo.
Edizione Einaudi 1973, la prima col nuovo titolo

12 aprile 2024

Il secondo battesimo rock di Eugenio Finardi

Intitolato semplicemente Finardi, il sesto album in studio del rocker milanese uscì nel 1981. Ascoltandolo, viene da chiedersi se sia stato l'ultimo della prima fase della sua carriera, oppure il primo di una nuova era. Roccando rollando (1979) aveva un nome tipicamente seventies, e infatti aveva chiuso quel decennio. Intitolare il disco successivo Finardi tradiva la volontà di ripartire da capo, o comunque di intraprendere una coraggiosa inversione di marcia. Ingaggiato il celebre produttore Angelo Carrara, l'album fu registrato nei mesi di novembre e dicembre 1980 nei gloriosi Stone Castle Studios al castello di Carimate. In origine il cantautore avrebbe voluto utilizzare l'inglese, anche per via dell'ottima padronanza della lingua (la madre era americana), ma la casa discografica si oppose e i testi furono tradotti in italiano. L'idea originaria venne tuttavia concretizzata l'anno successivo con Secret streets.
La copertina, realizzata graficamente dal grande Mario Convertino, mostra il viso di Finardi trasfigurato da una chitarra elettrica trasparente, una Exile custom realizzata dalla Glass Master che è possibile ammirare in uno speciale registrato per la Rai. In questo album sono tre gli indici di un cambio di direzione rispetto al passato. Il primo è nella scelta di farsi affiancare da un paroliere, il "quinto Pooh" Valerio Negrini. Quasi tutti i testi sono scritti in collaborazione con quest'ultimo, la cui mano si sente sia nei pezzi arrabbiati che in quelli più lirici (si pensi a Oltre gli anelli di Saturno), nonché nella distopia di Prima della guerra.
«Dicono di un congegno che sparava gli occhi sulle stelle,
che potevi guardare in un uomo attraverso la sua pelle,
e la gente accendeva certi specchi intelligenti
e arrivavano immagini e voci dai posti più distanti.»
La seconda novità riguarda i musicisti. I precedenti due album, Blitz e Roccando rollando, erano suonati dai Crisalide, band di supporto con il compianto Stefano Cerri, Mauro Spina, Luciano Ninzatti ed Ernesto Vitolo. In Diesel e Sugo, invece, suonavano il fido chitarrista Alberto Camerini, nonché musicisti del laboratorio Cramps come Tavolazzi e Fariselli degli Area. Per Finardi invece si optò per turnisti di rilevanza internazionale: Ray Fenwick alle chitarre (The Syndicats, The Spencer Davis Group), John Gustafson al basso (Quatermass, Roxy Music), Derek Austin e Mike Moran (poi con gli Heart) alle tastiere, nonché il mitico Les Binks (Judas Priest) dietro le pelli. Da ricordare anche il cameo di Lucio Dalla, clarinettista in Valeria come stai?
La terza novità rispetto ai precedenti lavori è nel suono. Sotto questo profilo, Finardi è un disco "ottantiano"; si potrebbe persino azzardare che sia figlio del punk e della nascente new wave, con accenni elettronici mai invasivi. Senza voler fare l'analisi traccia per traccia, le canzoni possono essere suddivise in tre gruppi. Nel primo ci sono dei pezzi rock tiratissimi: l'incalzante Trappole, la furiosa Mayday e l'incazzata F104, riproposta recentemente da Giorgio Canali. Valida anche Computer, che sembra anticipare l'attuale perniciosa moda degli influencer.
«Con il mio calcolatore abbiam capito com'è,
il segreto del successo è programmarsi da sé,
doppiarsi nello specchio e pettinarsi la grinta.
La gente si innamora solo della gente convinta.»
Poi ci sono le ballate d'amore; in primis il reggae di Valeria come stai?, nonché la dolcissima Patrizia, forse la canzone che tutti vorrebbero aver scritto per la donna amata. Degna di nota anche l'invettiva di Piccola stupida, con un testo tra l'ironico e l'irriverente che oggi verrebbe messo all'indice. Vanno infine menzionati tre brani di eccellente fattura, a metà strada tra il soft rock e il cantautorato più raffinato: Prima della guerra, Oltre gli anelli di Saturno e Le stelle stanno ad aspettare, con la seconda una spanna sopra le altre.
La mia opinione è che il disco avrebbe avuto ben altri riconoscimenti qualora l'avesse partorito un altro artista. Cercherò di spiegarmi meglio. Quando uscì il 33 giri, Finardi era in trincea da più di dieci anni, avendo realizzato due tra i migliori album italiani degli anni Settanta, Diesel e Sugo. Era stato un assoluto protagonista del decennio, al punto che brani come Musica ribelle e La radio erano inni del movimento studentesco. Inevitabile pertanto il confronto, che ha fatto passare sotto traccia questo disco del 1981, così diverso dai precedenti. Eppure dentro ci sono tante idee e il suono è più internazionale di molti lavori coevi. Sono sicuro che, qualora lo avesse pubblicato una band sconosciuta o un nuovo cantautore, avrebbe avuto maggiori riconoscimenti. Forse oggi sarebbe entrato di diritto in una classifica dei cento migliori dischi di rock italiano. Se non è così, è solo perché gli anni Settanta di Finardi sono talmente grandi da mettere in ombra ciò che è venuto dopo.

31 marzo 2024

"Il bastardo primordiale" di Tom Sharpe: per gli amanti del grottesco

Il bastardo del titolo è tale di nascita e di fatto. Di nascita perché la madre, morta di parto, non ha mai rivelato l'identità dell'uomo che l'ha sedotta e abbandonata. Di fatto perché Lockhart Flawse, questo il suo nome, è un giovane cinico e privo di scrupoli, pronto a commettere ogni genere di nefandezze pur di raggiungere il suo scopo. Lockhart vive a Flawse Hall, un'antica magione sperduta nella brughiera del Northumberland, assieme al dispotico nonno materno Edwin e al truce ma fido domestico scozzese Dodd. Il motore dell'azione, l'evento che dà il via a un caleidoscopio di vicende tra il comico e il tragico, è l'incontro dei due Flawse con madre e figlia Sandicott. La prima è un'arrampicatrice sociale, disposta a rinunciare persino alla propria dignità pur di mettere le mani sul patrimonio del vecchio. La figlia Jessica è invece una ragazza dolce e ingenua, cresciuta a pane e romanzetti rosa, incapace di ogni malizia. Tra i membri di questo eccentrico quartetto si celebrano due matrimoni: nonno Flawse sposa mamma Sandicott e Lockhart impalma Jessica. È a questo punto che gli eventi prendono una piega inaspettata fino all'esplosivo finale.
Il bastardo primordiale è considerato un romanzo umoristico, sebbene la tonalità dominante sia il grottesco. La storia è infatti infarcita di eventi bizzarri, paradossali, gravi e drammatici, tuttavia narrati con un tono innaturalmente lieve e comico: esplosioni, uccisioni di animali, omicidi, incesti, atti di sadismo, parafilie, reati contro il patrimonio e contro le persone, imbalsamazioni e via discorrendo. Il tutto è esposto con uno stile asciutto e sobrio che solo raramente indulge nel turpiloquio. D'altronde il londinese Tom Sharpe (1928-2013) era un serio studioso di storia e antropologia, prima ancora di ottenere la fama come scrittore umoristico. Lavorò per un periodo in Sudafrica, venendone espulso nel 1961 per aver pubblicamente contestato il regime dell'apartheid. Pubblicò il suo romanzo d'esordio nel 1971, relativamente tardi, dando sfogo a una vena grottesca che lo portò a sfornare molti bestseller. In Italia sono stati pubblicati da Longanesi e TEA.
Il romanzo è un perfetto esempio di humour nero inglese, tra sarcasmo, giochi di parole, scene irresistibilmente comiche e altre di devastante cinismo. Non mancano frecciatine razziste, rivolte principalmente a noi italiani; il personaggio dell'imbalsamatore Taglioni è infatti un concentrato dei peggiori e più odiosi stereotipi che gli inglesi hanno nei nostri confronti. Tuttavia è indiscutibile che il vero bersaglio dei feroci strali di Sharpe siano proprio i suoi connazionali. Il quadro che ne esce è davvero desolante: gli inglesi sono descritti come un popolo gretto, intollerante, aristocratico solo di facciata, tendente alla perversione e alla brutalità, feroce dietro un perbenismo ipocrita. È risaputo che paradosso ed esagerazione sono le chiavi di volta del grottesco; tuttavia è indubbio che oltre i sapienti eccessi del romanzo si nasconda un fondo di verità.
Sulla copertina dell'edizione TEA c'è una promessa perentoria, ossia "Garantito: si ride!". A mio avviso è un'esagerazione, perché il romanzo strappa sì qualche sorriso, ma non si ride mai di gusto; forse per apprezzare al meglio i giochi di parole andrebbe letto in lingua originale. Ritengo invece che il punto di forza siano i personaggi; Sharpe infatti è riuscito a tratteggiare perfettamente i tanti vizi e le poche virtù di questo quartetto di squinternati. Persino i personaggi di contorno – Dodd, l'avvocato Bullstrode, il citato Taglioni – sono delineati con straordinaria vividezza. 
Ho acquistato questo romanzo per caso, in quanto non conoscevo il caustico scrittore inglese. L'ho pagato due euro perché ho trovato una vecchia edizione del 1994 in una libreria di remainder. Faccio questa precisazione perché, discostandosi molto dai miei canoni, credo che non l'avrei mai comprato a prezzo pieno. Tuttavia lo consiglio agli amanti del genere grottesco, perché il turbinio di emozioni contrastanti che provoca è sicuramente buon pane per i loro denti.
Edizione TEA del 1994

19 marzo 2024

"Gioventù. Scene di vita di provincia" di John Maxwell Coetzee: una dolorosa iniziazione

Si parla poco della storia del Sudafrica, meno di quanto meriterebbe una delle pagine più controverse del Novecento. L'apartheid è solo menzionata dai manuali di storia delle scuole superiori, brevi cenni che non rendono pienamente l'idea di cosa è stato l'ultimo sistema segregazionista protetto dall'ombrello della legge. Come ho già scritto altrove, quando si parla di lotta contro l'apartheid, il pensiero corre a Nelson Mandela e ai militanti dell'African National Congress. Eppure non fu esclusivamente una battaglia della gente di colore: molti cittadini bianchi fecero propria questa buona causa, pagando addirittura con il carcere. I bianchi che non appoggiavano la segregazione erano coraggiosi, perché ci voleva ardimento per abbandonare i privilegi di cui si godeva esclusivamente per il colore della pelle, abbracciando la causa degli esclusi e degli emarginati. C'era poi una terza categoria, formata da quelli che non sostenevano né il governo né gli attivisti di colore, provando al contempo disgusto per la classe dominante e sfiducia verso quanti avrebbero dovuto rovesciarla. L'unica opzione concepibile era emigrare. È a questa minoranza di scettici che Coetzee ha dato voce nel romanzo Gioventù. Scene di vita di provincia.
Si tratta del secondo volume di un'autobiografia fittizia principiata col romanzo Infanzia. La vicenda è narrata anonimamente in terza persona. Il protagonista John è un giovane studente di matematica di Città del Capo. Sebbene in Sudafrica sia privilegiato in quanto bianco, prova insofferenza verso il proprio Paese e i suoi abitanti. Il Sudafrica gli appare come una terra arretrata nonostante la ricchezza materiale, culturalmente povera, lontana dai grandi movimenti artistici, capace solo di scimmiottare malamente le mode provenienti dall'Inghilterra o dagli Stati Uniti. In poche parole, una nazione senza identità, ignorata dagli europei cui vorrebbe assomigliare e tuttavia non pienamente africana. John invece pensa di essere un artista, un poeta per la precisione, e non tollera che il tempo gli sfugga di mano senza averlo pienamente vissuto. Così un giorno, prima della notifica della famigerata cartolina per la leva obbligatoria, si lascia tutto alle spalle e parte per l'agognata Londra.
Sono i primi anni Sessanta, gli anni della Swinging London, quando la capitale inglese si è affermata come centro indiscusso dello stile, della moda e della cultura. John prova in tutti i modi a diventare londinese e a recidere i contatti con la madrepatria; addirittura viene assunto come programmatore dalla IBM, conducendo una vita convenzionale che stride coi suoi sogni da artista bohémien. Scopre però di non essere tagliato per quell'esistenza e inanella un fallimento dietro l'altro, soprattutto in campo sentimentale. Inizialmente si convince che è il prezzo da pagare per diventare un vero artista: solo toccando con mano ogni abiezione e cadendo sempre più in basso potrà assomigliare ai suoi miti letterari. Anche questa è una fallace convinzione: la verità è che le origini sono una catena da cui non ci si può mai liberare.
«Il Sudafrica è come un albatro che gli sta sul groppone. Vorrebbe toglierselo di dosso, non gli importa come, così da cominciare a respirare.»
Gioventù è il resoconto di una dolorosa iniziazione che purtroppo conduce a uno scontato fallimento. È facile identificarsi in John, nella sua inettitudine e incapacità di adeguarsi al modello di esistenza che ha in mente. Dovunque vagherà sulla terra, sarà sempre un diverso, salvo nel natio Sudafrica, dove si trovano le sirene che gli fanno ribrezzo e tuttavia lo attirano perché gli somigliano. Alla fine dovrà accettare il fallimento come qualcosa di ineludibile. Coetzee sembra sostenere che non ha senso tentare di ribellarsi a un destino scritto nel sangue: una visione cupa e pessimistica espressa attraverso una scrittura densa e introspettiva. Gioventù è perfettamente inquadrabile nel genere del romanzo di formazione, sebbene la maturazione del protagonista coincida con lo sviluppo di un totale disincanto verso le cose del mondo. Nonostante innumerevoli esperienze di studio, lavorative, sentimentali e artistiche, John non riesce a trovare una strada che senta essere pienamente la sua. E torno dunque a quanto già detto all'inizio, ovvero che con Gioventù lo scrittore di Città del Capo ha dato voce a una minoranza negletta di "esuli" sudafricani.
Breve postilla. È un libro godibile che peraltro contiene molti riferimenti all'Italia e alla sua cultura; un motivo in più per leggerlo e apprezzare uno scrittore che nel 2003 è stato insignito del Premio Nobel.

6 marzo 2024

Le suggestioni d'oltremanica dei Frigidaire Tango

Parlare dei Frigidaire Tango significa tornare alle origini della new wave nostrana, prima ancora che nascesse il fenomeno del "rock italiano cantato in italiano" che vide tra i principali esponenti Diaframma e Litfiba. Qualche anno prima, siamo agli inizi degli Ottanta, la musica tricolore si era aperta alle suggestioni d'oltremanica, come già era accaduto nei due decenni precedenti. Se il beat e il progressive furono infatti importati dalla terra d'Albione dando vita a interessanti e originali progetti autoctoni, il punk della prima ora aveva appena sfiorato la penisola. Con la new wave, invece, si può parlare nuovamente di una scena italiana, di cui i Frigidaire Tango furono precursori e protagonisti, al punto da condividere il palco persino coi Sound del compianto Adrian Borland. Originari di Bassano del Grappa, diedero alle stampe solamente un 33 giri (The cock, 1981) e un EP (Russian dolls, 1983). Quest'ultimo contiene Recall, il loro brano più celebre che fu presentato persino in RAI, recentemente riproposto nella traduzione italiana da Giorgio Canali nel suo album Perle per porci. Ho parlato di traduzione perché i Frigidaire Tango cantavano in inglese, al pari di gruppi mitici come Chrisma, Neon e Gaznevada. Scioltisi qualche anno dopo, si sono poi riformati dando alle stampe nel 2009 un disco di inediti cantato in italiano, L'illusione del volo. Ma l'interesse nei loro confronti si era risvegliato già tre anni prima con la pubblicazione di un cofanetto contenente tutta la produzione, The freezer box. L'album di esordio di cui voglio parlare, The cock, è stato invece ristampato in LP nel 2013 dalla Spittle Records, per cui è facilmente reperibile.
Prima di analizzarlo, bisogna partire dal contesto. Come raccontato dagli stessi musicisti in un'intervista disponibile su Vice, in quegli anni non era facile pubblicare un disco, soprattutto perché nell'epoca dell'analogico la registrazione aveva costi proibitivi. Ciononostante, il gruppo veneto ottenne la fiducia di una piccola etichetta indipendente, la Young Records. Il risultato fu eccellente, tanto che The cock è un album che può ancora dire molto a oltre quarant'anni dalla sua uscita. Registrato al Button Studio tra la primavera e l'autunno del 1981, vede Charlie "Out" Cazale alla voce, Steve "Hill" Dal Col alla chitarra, Mark Brenda alle tastiere, J.M. Le Baptiste alla batteria, nonché il bassista uscente (Steve "Elbow" Gomero) e il nuovo Dave Nigger. Il disco è inoltre impreziosito dal sassofono di Alex Strax. Come è evidente dagli pseudonimi, l'Inghilterra era l'immancabile punto di riferimento. Il suono di The cock ricorda infatti i grandi nomi del post punk: Stranglers e Magazine per l'uso delle tastiere, Joy Division per le atmosfere, e ancora The Sound, Ultravox, i primi XTC.
Il basso prepotente che apre Dangerous echo indica subito la via. Ritmo incalzante e bordate di chitarra su un tappeto di tastiere: così si presenta la band nei primi solchi di The cock, in perfetto stile new wave. Nella successiva Anytime you dress so fine fa addirittura capolino un sassofono, mentre Blue & pink è un raffinato gioiellino synth-wave con una meravigliosa coda pianistica su cui si innesta la chitarra lancinante di Dal Col. Push a me ricorda la coeva The fire dei Sound: una traccia furiosa e veloce come da tradizione punk. La prima facciata si chiude con le atmosfere rarefatte di A citizen came, altro brano degno di nota. Resterà sorpreso chi pensi che il lato B sia inferiore, come spesso accade negli album d'esordio. Invece, a parte un paio di riempitivi, il livello si mantiene alto. La strumentale I'm faster non avrebbe sfigurato in dischi inglesi ben più celebri: la furia chitarristica ammansita dal tappeto di tastiere la rende un ideale anello di congiunzione tra passato e "nuova onda". Black curtains è la mia preferita; ricorda qualcosa dei Magazine di Howard Devoto ed è impreziosita da un bell'assolo finale di Dal Col che sembra quasi John McGeoch. La conclusione è affidata all'omonima Frigidaire tango, una sorta di "tango elettronico" che vira verso la musica industriale.
Dopo ripetuti ascolti posso confermare che The cock è davvero una gemma nascosta che avrebbe meritato ben altra fama. Qualche ingenuità c'è, ma dobbiamo pensare che i ragazzi di Bassano erano giovanissimi e si approcciavano a un genere che in Italia era ancora agli albori. L'ispirazione dei gruppi inglesi si sente, tuttavia The cock non è derivativo; anzi, sorprende l'ascoltatore per originalità e compiutezza del progetto. Ai Frigidaire Tango si deve molto di più rispetto a quanto abbiano raccolto, come dimostra il fatto che abbiano suonato con Adrian Borland. Questo 33 giri non può mancare in un'ideale classifica dei cento migliori dischi di rock italiano.
Copertina e retro di The cock (ristampa Spittle Records del 2013)

24 febbraio 2024

Il pittore che ha dato voce al silenzio

Dal 9 febbraio al 26 maggio è possibile visitare a Roma, presso il Palazzo Merulana, la mostra "Antonio Donghi: la magia del silenzio", a cura di Fabio Benzi. Come ho già scritto qualche tempo fa, Palazzo Merulana ha sede nell'omonima via nell'ex Palazzo dell'Ufficio di Igiene, chiuso e pericolante fino a pochi anni fa. Nel 2013 il Comune di Roma, proprietario dell'edificio, ha avviato un project financing per il recupero dell'area; è nato così Palazzo Merulana, oggi sede di un interessante museo di pittura e scultura del Novecento italiano. Lo spazio espositivo è articolato su quattro livelli e ospita stabilmente un centinaio di opere. Il percorso museale si snoda al secondo (il meraviglioso Salone) e al terzo piano (la Galleria), mentre al quarto c'è un'ampia sala utilizzata anche per conferenze. Le opere esposte sono di proprietà dei coniugi Elena e Claudio Cerasi; alla Fondazione a loro intitolata si deve il merito di aver aperto al grande pubblico questa importante collezione privata. La mostra dedicata a Donghi occupa il terzo piano e il biglietto consente di visitare inoltre la collezione permanente e, fino al 3 marzo, un'esposizione dell'artista contemporaneo Vittorio Marella.
Il romano Antonio Donghi (1897-1963) è stato uno dei principali esponenti del cd. Realismo magico, corrente artistica e letteraria che si affermò in Italia fra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Agli inizi della carriera si dedicò perlopiù alla paesaggistica, con opere di gusto tradizionale in stile post-impressionista. Nel 1923 la svolta. Donghi entrò a far parte del gruppo di artisti gravitanti intorno alla Galleria Bragaglia, ove erano esposte le avanguardie nazionali e straniere; qui ammirò le opere di Ubaldo Oppi, che lo impressionarono profondamente. Oppi è considerato uno dei fondatori del citato Realismo magico, una corrente che inseriva elementi magici o metafisici in una cornice apparentemente realistica. Per capire di cosa si tratta, vi invito a leggere il romanzo La pietra lunare di Tommaso Landolfi, in grado di spiegare meglio di ogni manifesto questo particolare movimento. Lo stile di Donghi si affinò nei due decenni successivi, rendendolo un artista noto e riconoscibile. Caratteristica è la rappresentazione di figure semplici, uomini e donne ripresi in gesti quotidiani, raffigurati in pose fisse, dallo sguardo profondissimo, realistici al massimo eppure circondati da un'aura sovrannaturale. Ha scritto in proposito il poeta lucano Leonardo Sinisgalli:
«Bisogna veramente nominare il paradiso a proposito di Donghi, e domandarsi di che cosa sono fatti gli angeli. […] Questi fiori che sembrano dipinti sui piatti, questi personaggi a coppie, così limpidi a furia di star fermi, così totalmente privi di ombra, hanno una fissità medianica. Sono spiriti, ecco, e son fatti della stessa sostanza dei fiori. Anche gli angeli devono essere fatti della stessa sostanza.»
Le opere in mostra sono più di trenta, in prestito dalla Galleria Comunale d'Arte Moderna di Roma, dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, dalle collezioni della Banca d'Italia e UniCredit, nonché facenti parte della Fondazione Elena e Claudio Cerasi. Di fatto viene ricostruito l'intero percorso del pittore romano: i paesaggi e le nature morte delle origini, arrivando ai ritratti di figure in interni ed esterni, colti nella dimensione intima della camera da letto, della toeletta o del camerino. Non a caso molte opere rappresentano circensi, attori e saltimbanchi, raffigurati non durante l'esibizione ma nelle pause prima o dopo lo spettacolo. Il teatro, il cinema e il circo ebbero infatti una profonda influenza su Donghi.
Figura di donna, 1932

Sebbene i paesaggi rientrino tra le opere "minori" dell'artista, quelli esposti sono molto suggestivi. Non sono un critico d'arte, ma ho notato che la medesima fissità che caratterizza i ritratti è presente anche nei paesaggi. Sono luoghi senza tempo, immoti, bloccati in un eterno presente. Si prenda come esempio il Castello di Arsoli: tutto è apparentemente fermo, ma il cancello di ferro aperto sul fondo induce nell'osservatore una sottile inquietudine, come se da un momento all'altro dovesse irrompere sulla scena un personaggio inquietante o un evento inatteso.
Castello di Arsoli, 1946
Via del Lavatore, 1924
Paesaggio toscano (Monte Amiata), 1934
Fruttiera su un tavolo, 1935

I ritratti sono invece i grandi capolavori di Donghi. Come riportato nelle note che accompagnano la visita, Donghi «ha una capacità straordinaria di assorbire i testi figurativi dell'arte antica, dal Trecento al Seicento, celandone accuratamente i riferimenti in soggetti semplici e popolari». Sono personaggi senza tempo, moderni per angoscia esistenziale e un sottile male di vivere che traspare dallo sguardo, e al tempo stesso antichi come divinità, di cui hanno anche la posa ieratica. Osservandoli, viene da chiedersi cosa si nasconda dietro il loro sguardo interrogativo: indifferenza, paura, angoscia, disincanto o semplicemente resa alle grandi domande che attanagliano l'uomo. I personaggi di Donghi cercano una risposta ai dubbi che affollano la mente, oppure semplicemente accettano passivamente gioie e dolori dell'esistenza? Questa la domanda che mi sono posto. D'altronde, sembra emergere un senso di totale incomunicabilità; anche laddove le figure sono in gruppo – come ne La gita in barca o in Caccia alle allodole –, non c'è dialogo tra loro, non si toccano, non si guardano né parlano. Ciascuna è immersa nei propri casi ed è disinteressata ai pensieri e ai sentimenti degli altri.
Donna alla toeletta, 1930
Annunciata, 1940
Ritratto di madre e figlia, 1942
Caccia alle allodole, 1943

Tra le tante opere, mi ha colpito particolarmente Il giocoliere. In una stanza dai colori tenui, abbellita soltanto da una tenda e da un modesto vaso di fiori su un treppiede, un giocoliere prova il suo spettacolo. Vestito con un gilet ocra e pantaloni di velluto viola, è in grado di tenere un cilindro in equilibrio sul sigaro. Lo sguardo è fisso sul cappello, i piedi ben piantati in terra, una mano sul fianco e l'altra in avanti, pronta a prendere il cilindro qualora dovesse cadere. Il quadro è così realistico che lo spettatore non può far altro che rimanere in silenzio, rapito dall'abilità del giocoliere e timoroso che il cappello possa cadere.
Il giocoliere, 1936

Le fotografie rendono l'idea della mostra più di qualsiasi commento, per cui non aggiungo altro. Mi preme tuttavia fare un piccolo appunto. La mostra è ospitata in tre sale abbastanza anguste, sebbene Palazzo Merulana disponga di spazi più ampi e arieggiati, come i saloni al secondo e quarto piano. Dato il notevole afflusso di pubblico, specialmente nei fine-settimana, forse sarebbe stato opportuno collocarla nelle sale più grandi.
Ritratto di donna, 1944
Il cacciatore, 1929

12 febbraio 2024

"La fonte ai confini del mondo" di William Morris: dove tutto è cominciato

Quando si parla di generi letterari o correnti artistiche, c'è sempre divergenza di opinioni circa l'individuazione dell'artista capostipite o dell'opera archetipica. Ciò vale anche per la letteratura fantastica, specialmente per il suo sottogenere noto come fantasy. Se infatti la storia del fantastico è antica quanto l'uomo, come ci insegna Todorov in un suo celebre saggio, il fantasy è invece relativamente recente, risalendo alla seconda metà dell'Ottocento. Sia pure con le dovute cautele, molti concordano che La fonte ai confini del mondo (1896) dell'inglese William Morris possa essere considerato il primo romanzo fantasy della storia, tanto che fu di ispirazione per i grandi maestri del genere, Tolkien e Lewis. Morris nacque a Walthamstow nel 1834 e morì nel 1896; fu scrittore di prosa, poeta, architetto, editore e pittore legato al movimento preraffaellita, nonché attivista politico vicino al socialismo. La fonte ai confini del mondo è stata a lungo inedita in Italia; la prima edizione Fanucci è infatti del 2005, poi ristampata nel 2019.
La trama riprende pedissequamente alcuni tòpoi della letteratura cortese e cavalleresca. In un'epoca che somiglia al Medioevo c'è una terra immaginaria su cui regnano diversi sovrani. Uno di questi è Peter, un regulus che regna sulla felice Upmeads. Peter ha quattro figli e i tre maggiori lasciano la terra dei padri per fare fortuna nel mondo. Il più piccolo, Ralph, è destinato a rimanere a Upmeads; tuttavia il suo temperamento temerario lo spinge ad allontanarsi di nascosto dagli amorevoli genitori. Così un bel giorno parte senza una meta precisa. Inizialmente segue un indefinito desiderio d'avventura, fino a quando viene a conoscenza di una miracolosa fonte che dona eterna giovinezza, salute, felicità e avvenenza a chiunque riesca a bere le sue acque. Senza esitazioni Ralph parte alla ricerca della sorgente, tra mille peripezie che gli faranno acquisire fama, sapere e gloria.
Il tema centrale del romanzo è proprio il viaggio; in ciò si ravvisa l'influenza maggiore che Morris ha avuto sugli altri maestri del genere. Il suo protagonista è perennemente in movimento, a piedi o a cavallo; egli visita città e castelli, attraversa boschi e deserti, valica montagne e supera colline, guada torrenti e fiumi impetuosi, conosce uomini e donne di ogni risma. Le descrizioni delle peregrinazioni di Ralph sono a mio avviso il punto forte del romanzo; forse soltanto Tolkien riuscirà a rendere con maggiore realismo e vividezza lande selvagge e paesaggi immaginari. Morris è, sotto questo aspetto, uno scrittore "ottocentesco", minuzioso nelle descrizioni e attento nei particolari; molte pagine offrono davvero un'esperienza immersiva, sicché sembra di camminare assieme ai suoi personaggi in terre lontane e amene. I dialoghi invece sono spesso verbosi, oltre che improntati a un tono moraleggiante che appesantisce la lettura. Tutti i personaggi, anche i più umili, sfoggiano un linguaggio forbito da poeta cortese che appare poco credibile, rendendo indistinguibile il misero bracciante dal potente abate, il rozzo guerriero dal letterato.
Un altro aspetto poco convincente è che i personaggi sono stereotipati secondo una rigida visione manichea che esaspera gli aspetti buoni e quelli cattivi, senza vie di mezzo. Mi duole dire che in alcuni frangenti ho trovato insopportabile il protagonista. Ralph è l'emblema dell'eroe senza macchia e senza paura: bello, coraggioso, saggio, giusto, in una parola perfetto. A tratti tracotante, non ha l'ingenuità della giovinezza che me l'avrebbe reso più simpatico; nessun dubbio lo sfiora, nessuna difficoltà sembra insormontabile per lui. Per queste ragioni diventa difficile immedesimarsi o anche solo empatizzare con lui, in quanto Morris non instilla mai il dubbio che Ralph possa fallire nella sua missione, per cui l'esito della vicenda appare scontato già dalle prime pagine. Anche gli altri personaggi hanno una psicologia poco approfondita e risultano appiattiti su un'unica dimensione: Ursula è l'incarnazione del bene, il signore di Utterbol quella del male, e così via.
La vera originalità dell'opera, quella che ci fa dire che con Morris "tutto è cominciato", è il perfetto assemblaggio di miti, leggende, tradizioni orali, poemi epici e amor cortese in una storia complessa e abbastanza avvincente. Lo scrittore inglese comprese prima di ogni altro il grande potenziale racchiuso in queste storie tramandate da secoli, purché venissero rielaborate in chiave più moderna per adattarsi ai gusti del pubblico. L'apprezzamento dei suoi colleghi conferma la validità dell'intuizione di Morris.
Mi sono approcciato alla lettura del libro con grande entusiasmo, memore delle piacevoli ore trascorse in compagnia di Tolkien. Le mie aspettative sono rimaste parzialmente deluse per le ragioni anzidette. Non sono un esperto di letteratura fantasy, eppure ritengo che la mancanza di elementi quali la magia, il soprannaturale e l'orrido non consenta di ascrivere completamente il libro al genere. Peraltro il volume è ricco di riferimenti al cristianesimo, per cui il mondo inventato da Morris non è poi così diverso dal nostro Medioevo. La fonte ai confini del mondo è un racconto d'avventura, o meglio un romanzo cavalleresco dalle tinte fantastiche, ma non un fantasy a tuttotondo. Se si accetta questa premessa, resta un libro godibile perché narra una storia senza età che sa accendere la fantasia dei lettori.

30 gennaio 2024

"La rivincita" di Michael Curtin: gli ultimi saranno i primi

Inizio la recensione in maniera insolita, mettendo subito le mani avanti: questo romanzo non mi ha convinto. Ciò non significa che non valga la pena leggerlo; semplicemente, ha deluso le mie aspettative. L'editore italiano lo presenta in quarta di copertina come «un classico della letteratura comica». E invece, salvo nelle pagine finali, è proprio la comicità a mancare. O forse è un umorismo tipicamente irlandese, lontano dai nostri canoni. La rivincita (titolo originale, The replay) è un romanzo del 1981 di Michael Curtin, irlandese di Limerick. Scrittore amato in patria, in Italia è ricordato specialmente per La lega anti-Natale, sempre per i tipi di Marcos y Marcos.
C'è da premettere che l'idea alla base della trama è avvincente. La rivincita è quella che gli ex allievi dell'Istituto chiedono agli avventori del Nook. Quindici anni prima le due squadre si erano sfidate a calcio e i secondi avevano vinto, sia pure in maniera non del tutto limpida. La sfida era stata epica anche per ragioni extracalcistiche di rivalsa sociale: l'Istituto era la scuola privata dell'alta borghesia cittadina, mentre il Nook era un pub proletario, frequentato da giovani squattrinati. La vittoria del Nook non è mai stata digerita da quelli dell'Istituto, che dopo tre lustri organizzano una rivincita. Unica regola: i giocatori devono essere gli stessi di quindici anni prima, senza eccezioni o possibilità di sostituzioni. Il romanzo offre un interessante spaccato di vita irlandese alla fine degli anni Settanta, che emerge attraverso la meticolosa descrizione dei preparativi della partita. L'organizzazione dell'evento copre infatti buona parte del libro, mentre all'incontro vero e proprio sono dedicate soltanto le pagine finali.
La sinossi promette molto, ma a mio avviso l'esito non è sempre all'altezza. Il libro viaggia a due velocità: alcuni capitoli sono gustosi e strappano qualche sorriso, mentre altri sono prolissi e rallentano il ritmo della narrazione. Curtin si diffonde in interminabili dialoghi tra i personaggi, conversazioni che spesso è difficile comprendere fino in fondo o comunque calare nel contesto della narrazione. Preda dei fumi alcolici, i suoi personaggi intavolano lunghe chiacchierate seduti agli sgabelli del Nook, sicché dopo qualche pagina l'attenzione del lettore scema e si ha la tentazione di saltarle. Detto brutalmente, per quanto possa essere una considerazione superficiale e poco tecnica, credo che qualche decina di pagine in meno avrebbero giovato al ritmo e alla godibilità del libro. Alcuni capitoli sembrano quasi dei riempitivi. A titolo di esempio, mi vengono in mente le parti in cui si raccontano nei minimi dettagli le biografie dei calciatori del Nook. È il caso di Stevie Mack, personaggio tutto sommato secondario di cui vengono narrate le peripezie londinesi, sebbene siano quasi del tutto ininfluenti rispetto alla storia. Quanto all'umorismo, i momenti davvero divertenti si contano sulle dita di una mano; prevale un tono cinico e disincantato che al più strappa qualche amaro sorriso. Ciò è coerente con il contesto in cui si muovono i personaggi: una provincia irlandese lenta e sonnacchiosa, la cui unica magra possibilità di evasione consiste nel trascorrere qualche ora ad alta gradazione alcolica in pub sordidi. Chi è appassionato di questo stile di vita potrà sicuramente apprezzare le lunghe scene al Nook, fatte di dialoghi semiseri con le lingue impastate dalla birra. Quanti invece, come il sottoscritto, non abbiano familiarità con il contesto, potrebbero non essere in grado di cogliere sottigliezze e sottintesi in cui si cela lo spirito più squisitamente comico del romanzo.
Se questi sono gli aspetti deboli, La rivincita presenta anche dei punti di forza. In primis, come già accennato, è un vivido resoconto della vita in Irlanda qualche anno fa, con abbondanza dei classici stereotipi. Curtin, sia pure tra le righe, denuncia il peso della rigida morale cattolica nella vita dei suoi conterranei, il sotterraneo conflitto tra ossequio alla religione e desiderio di trasgressione, i drammi dell'alcolismo e della disoccupazione, la miseria di interi quartieri, il rapporto ambiguo con la vicina Inghilterra, egualmente temuta e odiata. È forse questo profilo di velata critica sociale il punto di forza del libro, più ancora dell'umorismo di cui si parla in quarta di copertina. Anche perché, pur non avendolo apprezzato particolarmente, alla fine mi sono trovato comunque a fare il tifo per gli ex ragazzi del Nook, da Stanley Callaghan a Jack O'Dea, passando per Dara Holden e lo sfortunato Gabriel. La loro vicenda di fantasia ci insegna che a volte gli ultimi possono essere davvero i primi.

18 gennaio 2024

Uomini o lupi? Una pellicola dimenticata del cinema italiano

Il significato più profondo di Lupi nell'abisso, film del 1959 per la regia di Silvio Amadio, è riassunto già nei titoli di testa. Anzi, si può affermare che rappresentino una vera e propria lettera d'intenti.
«La vicenda che vedrete è assolutamente estranea alla cronaca. I personaggi sono di pura fantasia. L'equipaggio di questo sommergibile non appartiene ad alcuna marina del mondo, come è evidente dalle divise, dagli emblemi, dall'armamento, che sono del tutto arbitrari. Per lo stesso motivo i personaggi non hanno nomi, né si fa riferimento a località od epoca.»
L'intenzione del regista e degli sceneggiatori era quella di raccontare una vicenda umana a valenza universale che potrebbe accadere o essere accaduta a qualsiasi latitudine. Per questo motivo, Lupi nell'abisso è un film di guerra anomalo. La trama è tanto semplice quanto appassionante. Un sommergibile sta navigando a pelo dell'acqua per fare ritorno alla base dopo una pericolosa missione. Nulla di più ci è dato sapere: né quale guerra stia combattendo, né quale Paese stia servendo. All'improvviso viene attaccato da tre aerei nemici ed è colpito da una bomba nonostante la subitanea immersione. Seriamente danneggiato, si inabissa fino ad adagiarsi sul fondo del mare a centocinquanta metri di profondità. Una parte del sottomarino non è invasa dall'acqua grazie alle porte a tenuta stagna; è in questo angusto spazio che si trovano gli unici dieci superstiti, tre ufficiali e sette marinai. La situazione è drammatica, ma non senza speranze: il sommergibile è infatti dotato di uno scafandro di salvataggio che può tuttavia ospitare solo una persona alla volta. Sarebbe sufficiente organizzare dei turni per fuggire dalla trappola mortale, se non fosse per un terribile imprevisto. Il cavo di recupero è stato spezzato dall'esplosione; ciò significa che lo scafandro può essere utilizzato un'unica volta. Dopo l'emersione non sarà più possibile farlo rientrare nel sottomarino per salvare gli altri marinai. In parole povere, solo uno potrà salvarsi: gli altri dovranno morire.
Constatata l'impossibilità di riparare il cavo d'acciaio, il resto del film narra la guerra di nervi tra i membri dell'equipaggio per scegliere chi potrà salvarsi. È girato tutto in interni, nello spazio ristretto di un sottomarino mezzo allagato, con i dieci protagonisti che si muovono in pochi metri quadri. Il rischio era quello di una pellicola noiosa, e invece la storia avvince e non c'è neppure un momento di stasi. Il comandante e il nostromo, interpretati rispettivamente dai bravissimi Massimo Girotti e Folco Lulli, vorrebbero una scelta equa, fondata sulla solidarietà e non sull'egoismo. Gli altri marinai, tra cui spiccano attori del calibro di Piero Lulli, Alberto Lupo e Jean-Mark Bory, sono in preda alla paura, accecati dal risentimento verso gli altri e dalla meschinità. Nessuno è disposto a morire lasciando vivere un unico fortunato. La situazione a un certo punto sfugge di mano e il film si trasforma in un thriller con finale a sorpresa.
Il punto di forza della pellicola è nella capacità di generare nello spettatore un sentimento di viva partecipazione rispetto agli eventi, nonché una grande tensione emotiva senza l'uso di effetti speciali. L'avessero fatto gli americani, un film del genere sarebbe stato probabilmente un kolossal, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Amadio invece ha confezionato un ottimo esempio di cinema "artigianale" che si regge solo sulla bravura di un grande cast, senza necessità di ricorrere a espedienti spettacolari. La pellicola fu presentata al Festival di Berlino del 1959 ed ebbe una buona accoglienza da parte della critica. E invero, come ho detto, Lupi nell'abisso non è solo una storia di guerra, è qualcosa di più. È un film sulle tendenze bestiali che albergano nel cuore dell'essere umano, tendenze ferine e istintive che emergono prepotentemente quando sono in gioco interessi fondamentali. Nella drammatica lotteria su chi debba salvarsi, sorge la necessità di una scelta più profonda: siamo uomini o lupi? Questa è la domanda che il coraggioso comandante rivolge ai suoi marinai impauriti.
Qualcuno ha accusato la pellicola di nazionalismo, se non addirittura di vuoto sciovinismo. Mai critica fu più ingenerosa. Se esiste un film anti-retorico, questo è proprio Lupi nell'abisso. Al regista e agli sceneggiatori interessava raccontare una vicenda umana e non italiana, una vicenda che sarebbe potuta accadere a qualsiasi equipaggio. Di qui la scelta, precisata nei titoli di testa, di non dare bandiera, nazionalità e neppure nomi ai sommergibilisti. I marinai non hanno alcuna cadenza dialettale e non vengono mai menzionati luoghi reali, proprio per dare valenza universale al racconto. Certamente alcune scene (e dialoghi) risentono un po' degli anni – si pensi alla preghiera finale –, ma questo è un film intelligente e toccante da riscoprire senza indugio.
Massimo Girotti (il comandante) e Folco Lulli (il nostromo)

6 gennaio 2024

"Paso doble" di Giuseppe Culicchia: cronaca di un'Italia precaria

Paso doble (1995) è il seguito di Tutti giù per terra, fortunato esordio di Culicchia da cui fu tratto un film nel cui cast figuravano perfino i componenti del Consorzio Suonatori Indipendenti. Ciò tuttavia non significa che il romanzo non possa essere apprezzato da chi non conosce il precedente. È vero che la storia riprende da dove si era interrotta; tuttavia può essere letta in autonomia, senza che ciò ne pregiudichi la comprensione, anche perché i personaggi sono diversi. A dirla tutta, dalla lettura di Tutti giù per terra sono passati così tanti anni che non rammento quasi nulla, salvo il nome del protagonista e vaghi ricordi delle sue peripezie alla ricerca di un'occupazione, in un'Italia che iniziava a conoscere il dramma del precariato.
In Paso doble ritroviamo Walter alle prese col suo nuovo impiego di commesso in una videoteca/edicola di Torino. Il manager del punto vendita è un tipo ottuso, ossessionato dal bilancio e intimorito dai capi della sede centrale di Milano. Vorrebbe essere come i dirigenti d'azienda americani, rispetto ai quali è una misera macchietta, una copia riuscita male. Egli non ha reali competenze manageriali e crede di legittimarsi agli occhi dei dipendenti usando in continuazione parole e modi di dire anglosassoni. I colleghi di Walter sono invece dei personaggi strampalati usciti da un campionario di casi umani: Super Mario sogna di diventare un modello nonostante non ne abbia il fisico, mentre Egidio ha i modi di un lord inglese ma è un leghista convinto. La trama ruota intorno alle vicende umane, lavorative e sentimentali di Walter. La grigia routine delle sue giornate viene stravolta quando entra in scena Tatjana, una conturbante tedesca naturista, vegana ed ecologista, non si comprende bene se per moda o convinzione. Walter crede di trovare in lei il modo per uscire dal cerchio sempre uguale della sua esistenza, salvo doversi ricredere nell'amaro finale.
Culicchia si avvale del registro umoristico per raccontare una vicenda tragica, quella della prima generazione che si è trovata a fare i conti con il fantasma del precariato, abilmente mascherato dietro l'ipocrisia della "flessibilità" da chi detiene il potere e le redini dell'economia. La Torino in cui si muovono i personaggi di Culicchia è una città in stagnazione dopo la felice stagione del boom. In verità è lo stesso Paese a essere in profonda crisi, con tutte le avvisaglie dei problemi che esploderanno nel decennio successivo: la recessione, il lavoro sottopagato, i costi esorbitanti degli alloggi, la tv spazzatura, il regresso culturale, l'immigrazione. Culicchia coglie inoltre l'occasione per lanciare feroci strali contro quanti nascondono la propria ignoranza dietro l'uso di un inglese modaiolo e di circostanza; in particolare, contro quei manager che infarciscono i loro discorsi di parole come skills, problem solving, misunderstanding e simili.
Lo stile è semplice, immediato e scorrevole, diretto come il linguaggio di tutti i giorni. C'è una forte prevalenza dei dialoghi e ogni capitolo è suddiviso in brevi paragrafi numerati. Poco meno di centocinquanta pagine che si leggono d'un fiato in poche ore. Tirando le somme, si tratta di un romanzo gradevole, divertente, senza troppe pretese, che tuttavia stimola la riflessione offrendo un'accurata ricostruzione di un'età – la metà degli anni Novanta – che ci appare quasi preistorica, dati i rivoluzionari cambiamenti dell'ultimo ventennio. In verità, l'Italia raccontata in Paso doble non è il Paese aureo che spesso rimpiangiamo nostalgicamente, anzi non è poi così diversa da quella a noi contemporanea. L'ossessione per l'apparenza, le ingiustizie del quotidiano, lo sfruttamento del lavoro giovanile, la precarietà, l'avanzare di una tecnologia selvaggia col rischio dello smarrimento dei valori più profondi, l'ambizione di molti e il fallimento di altrettanti, sono aspetti quanto mai attuali. Ecco perché si potrebbe parlare di una valenza "archeologica" della rilettura di Paso doble a quasi trent'anni dalla sua pubblicazione: perché in fondo l'Italia ivi descritta è quella in cui è stato gettato il seme dello smarrimento e della miseria umana del presente.