23 febbraio 2015

"Il mondo è una prigione" di Guglielmo Petroni: oltre l'olocausto dei valori

Tra le testimonianze sulla Resistenza, questa è certamente una delle più intime e sentite. Con uno stile asciutto, senza orpelli di sorta, Guglielmo Petroni racconta i trentatre giorni trascorsi da detenuto a Roma nel 1944, arrestato dai tedeschi per la sua attività di antifascista. Il libro (prima edizione 1949) appartiene al genere del “memoriale dal carcere”, che tanti illustri predecessori ha avuto, da Wilde a Gramsci. Quattro le prigioni visitate dall’autore nei tragici giorni che precedettero la Liberazione alleata: la casermetta dei militi forestali, il commissariato di Via Flaminia, l’atroce Via Tasso e, infine, il terzo braccio di Regina Coeli, gestito dagli occupanti tedeschi.
Petroni credeva fermamente nel suo ruolo di intellettuale, nel dovere di assumere l’onere e i panni del testimone, per far conoscere a tutti, specie ai più giovani, ciò che aveva visto e provato. Il carcere patito dall’autore non è solo la violazione di ogni elementare diritto, ma è la negazione stessa della civiltà e dei basilari principi di giustizia e umanità. Ne esce un quadro di cupa desolazione: uomini stipati in celle sordide, avvezzi alle percosse e alle torture, condannati a morte o ai lavori forzati senza un equo processo. Con grande sensibilità Petroni ne racconta storie e passioni, ne descrive i volti e gli affanni, avendo cura di non dimenticare nessuno di quelli che ha sentito fratelli per comunanza di destino. In queste pagine si respira un’aria di drammatica precarietà, che porta il lettore a immedesimarsi nei personaggi, fino a provare la stessa angoscia e le medesime semplici speranze.
Il romanzo è anche un grande atto d’accusa contro la detenzione per ragioni politiche, dove la differenza tra carcerati e carcerieri non presuppone la commissione di un crimine da parte dei primi, ma l’esercizio della tirannide e della oppressione a opera dei secondi. Anche fuori dal carcere, però, la libertà non ha il dolce sapore tanto desiderato: tutto il mondo è una prigione, e lo sarà fin quando gli uomini non giungeranno a una soluzione morale, che consenta loro di intraprendere un nuovo cammino verso la giustizia e la fratellanza. La guerra e la prigionia hanno trasformato irrimediabilmente lo spirito e le relazioni umane; solo nel profondo del cuore sarà possibile rintracciare quei beni universali che, al di là delle contingenze storiche, hanno la capacità di resistere alle tragedie e all’olocausto dei valori.
Petroni amava soprattutto una cosa di questo libro, che spesso rimarcava: la sua valenza generazionale. Il mondo è una prigione ha il merito di aver dato conto di una generazione di intellettuali, di coloro che più di tutti hanno sofferto la vergogna della prigione e l’isolamento del confino, pur di portare avanti un insopprimibile desiderio di ribellione.

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Copertina prima edizione Mondadori, collana Medusa

5 febbraio 2015

"Boxe" dei Diaframma: il riscatto da una vita balorda

Roma, 31 gennaio 2015. Federico Fiumani sale sul palco per l’ennesimo intenso concerto; il ciuffo è quello di sempre, la grinta anche. E mi viene da pensare che ha almeno due grandi (e meritate) fortune: un repertorio vastissimo, costruito praticamente da solo, e un pubblico che lo conosce a memoria. Può attaccare qualsiasi pezzo, anche il meno noto, tanto un irriducibile pronto a cantarlo lo trova sempre. Fa quello che vuole sul palco, non ha una scaletta predefinita, segue gli umori del cuore; alla base, però, un grandissimo rispetto per il suo pubblico. Sa quello che la gente vuole, e la accontenta. Soprattutto, sa di non poter rinunciare agli anni Ottanta, di dover continuamente fare i conti con i primi tre dischi, Siberia (1984), Tre volte lacrime (1986) e Boxe (1988). Sorprendentemente, però, Fiumani attinge a piene mani proprio dall’ultimo, il capitolo finale assieme a Miro Sassolini, l’album meno considerato della trilogia. Esegue cinque brani: Boxe, Adoro guardarti, Blu petrolio, Un temporale in campagna e Caldo. Il perché di questa scelta, ad oltre venticinque anni dall’uscita del disco, è chiaro: si tratta di un’opera epocale, che si lascia apprezzare alla distanza.
Per descrivere Boxe non c’è niente di meglio che partire dalla recentissima ristampa in vinile a tiratura limitata (2014, distrib. Self), che contiene un succoso libretto, con fotografie, recensioni e interviste. E proprio in una di queste interviste, in occasione della presentazione del disco, Fiumani ne ha ben spiegato il significato: “Boxe perché c’è in lei la lotta, il fascino, il senso di precarietà, la voglia di riscatto da una vita balorda, un senso di lealtà e di umanità profondo”. E ancora, Miro Sassolini, in un’intervista rilasciata nel 2003 a mescalina.it, ha detto che “Boxe fu il culmine dell’ultima stagione, labirintico come una fitta trama nervosa spedisce le sue ultime lettere d’amore, le fotografie, il canto evoluto e le note disperate. È struggente e naufrago. Bellissimo”. Bisogna partire da queste parole, per comprendere che Boxe non è un approdo e neppure un punto di partenza, non è né la conclusione di una trilogia né l’avvio di una nuova epoca; è un disco perfettamente compiuto, un episodio anomalo che si muove tra due poli: il sentore della fine e la totale libertà compositiva. Già con il precedente Tre volte lacrime i Diaframma avevano abbandonato il suono cupo e i testi oscuri tipici della new wave, per avvicinarsi con maggiore decisione alla forma canzone. Eppure è solo con Boxe che il percorso si conclude, che testi e musica trovano la loro forma definitiva. Nella title-track si respira la voglia di riscatto, l’orgoglio e al tempo stesso l’amara consapevolezza di una vita vissuta ai margini: “Domani non starà più a me / a tenere le braccia alzate, / a scorticarmi alle corde. / Domani se ti cercherò / avrò la faccia di un uomo pulito, / fresco come una rosa. / E una rosa non può appassire”. Seguono brani che strizzano l’occhio al punk (Blu petrolio, Dottoressa), ballate romantiche (Marta), canzoni tiratissime dai toni crepuscolari (Aspettando te, Un temporale in campagna). L’ultima traccia è Caldo, dove per la prima volta canta Fiumani, la cui voce caratterizzerà tutta la produzione degli anni a venire.
Dopo Boxe, il gruppo si sfalda, perché non aveva più senso andare avanti insieme. Mi piace credere che non sono stati i dissapori interni a separare il binomio Fiumani-Sassolini, destinato forse a non ricomporsi più. È stata la consapevolezza, sia pur non immediata, ma maturata negli anni, di aver pubblicato un disco unico, perfetto come pochi. Dopo Boxe non si poteva seguire la stessa strada, semplicemente perché sarebbe stato impossibile fare di più e di meglio, perché il solco tracciato non poteva essere percorso di nuovo senza cadere nel già sentito. Si ascolti l’interpretazione di Miro, mai così drammatica e teatrale, si rileggano i testi, non più oscuri e criptici, ma finalmente diretti; soprattutto, ci si immerga nell’atmosfera, calda e corposa.
Che cosa rimane? Profetici sono i versi che chiudono Aspettando te: “Nel cuore ho una grande sconfitta, / è una sorta di nostalgia, / non so, di nostalgia”. Un album intenso e malinconico, come un addio in una stazione ferroviaria di periferia. Di lì a poco, dopo il Boxing tour ’88, il nucleo storico del gruppo si scioglierà. Miro e Federico, lontani negli intenti e nelle dichiarazioni, prenderanno le loro strade. Senza rimpianti, o almeno così dicono loro.
Foto tratta dal libretto interno del disco

4 febbraio 2015

"L'odontotecnico" di Manlio Cancogni: una questione privata

Leggendo questo romanzo non può che venire alla mente Una questione privata di Beppe Fenoglio, uno dei più celebri racconti sulla Resistenza, dove la dimensione pubblica della lotta partigiana e quella privata dei rancori individuali vengono a coincidere, e la seconda diventa lo specchio della prima, egualmente crudele e ingiusta. Anche la vicenda narrata da Manlio Cancogni (prima edizione, 1957), che si sviluppa tra il fatidico 25 luglio del ’43 e la Liberazione, è una storia tutta umana inserita nella tragedia collettiva della guerra, di cui riproduce ritmo e violenza.
Sullo sfondo della Storia, potremmo dire, si colloca una faccenda personale, che, sia pur minima e irrilevante, ha la capacità di riprodurre i tratti peculiari di un’epoca di dure contrapposizioni politiche e opposte scelte di vita.
Ivo Folli, fascista riottoso, è un odontotecnico che di fatto svolge la professione di dentista. Privo di un idoneo titolo di studio, è costretto a stipendiare un medico vero, un prestanome cui lo studio è intestato, che ozia tutto il giorno senza fornire alcun aiuto materiale. Per liberarsi da questa onerosa schiavitù, il Folli decide di conseguire il diploma di scuola superiore, che gli consentirebbe di esercitare da solo senza bisogno di intermediari. Si oppone a questo suo progetto l’antifascista professor Querini, che persegue la bocciatura dell’odontotecnico come un atto di lotta politica.
Impedire al Folli di conseguire il diploma diviene così l’ossessione del professore, convinto che si tratti di un atto necessario, partigiano: l’Italia che rinasce va depurata dagli individui come il Folli, usando il mitra o, se necessario, la carta bollata. Intorno ai due contendenti si muovono gli altri personaggi, come il preside Guardone, il capitano Zito e gli antifascisti di Canevara.
La penna spietata di Cancogni non salva nessuno, di tutti tratteggia abilmente meschinità e grettezza, indipendentemente dalla posizione assunta nella contrapposizione tra repubblichini e partigiani. È un mondo di provincia povero di mezzi e di idee quello in cui tutti si muovono, dove persino l’atto rivoluzionario o di lotta politica è piegato alla logica dell’utile e del vantaggio individuale. Nessuno ne esce indenne, nel corpo o nello spirito, per tutti il destino ha il sapore ineluttabile della beffa. Ne viene fuori una vicenda apparentemente minima, ma in realtà di grande impatto e crudezza.
In tempi come i nostri, che prediligono la letteratura di facile consumo, ci vorrebbe un editore coraggioso che ripubblicasse questo romanzo.

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