14 giugno 2015

"Milano non esiste" di Dante Maffia: l'ossessione del ritorno alle origini

Quando Guglielmo Petroni diede alle stampe il suo romanzo-manifesto sulla Resistenza, Il mondo è una prigione, un attento lettore lo ringraziò dicendo: “tu hai scritto per tutti noi le parole che dovevano essere scritte su di noi”, ad indicare che quel libro aveva avuto la capacità di raffigurare e di portare alla luce la storia di una generazione di intellettuali, la cui giovinezza era stata segnata dall’esperienza della dittatura e da quella partigiana. Credo che questo giudizio, pur con le dovute differenze, si attagli perfettamente a Milano non esiste. Dante Maffia, infatti, ha dato conto di una generazione di meridionali costretti nel secondo Dopoguerra a lasciare i luoghi natali per raggiungere le città industriali del Nord, dove trovare un apparente benessere a costo di diventare le piccole ruote di un ingranaggio pauroso e alienante. Il libro dà voce a queste persone, ne racconta sentimenti, frustrazioni e speranze; insomma, parafrasando il giudizio che ho riportato più sopra, si può dire che Maffia ha scritto per gli emigranti meridionali le parole che dovevano essere scritte su di loro.
Protagonista ed io narrante del romanzo, in forma di monologo, è un operario calabrese giunto alle soglie del tanto agognato pensionamento, che ha finalmente la possibilità di coronare un sogno tenacemente perseguito: abbandonare Milano, la città che gli ha dato il pane ma che lo ha sfruttato e spersonalizzato, e ritornare al paese in cui è nato, fra le gente e le tradizioni che conosce e gli appartengono. Il suo progetto, però, è più ambizioso di un semplice ritorno alle origini: con il denaro duramente risparmiato negli anni, tra straordinari e un impiego in nero in cantiere, è finalmente riuscito a costruire in Calabria la casa dei sogni, bella, spaziosa e in riva al mare; qui vuole condurre tutta la famiglia – moglie e sei figli, tutti nati all’ombra del Duomo – per salvarla dal grigiore e dalla violenza della metropoli, equiparata a una prigione (“ho fatto quarant’anni di Milano”, arriverà a dire). Nel preparare il suo progetto – in cui si combinano uno straordinario amore paterno e, al contempo, una visione tradizionalista del capofamiglia, sovrano indiscusso legibus solutus – non ha però considerato che i suoi ragazzi, nati e cresciuti a Milano, non hanno alcuna intenzione di andarsene in una terra che, al più, considerano buona solamente per le vacanze estive. E su questo conflitto, via via più drammatico, si innesta una sofferenza che finisce per diventare tragedia esistenziale.
I temi forti del romanzo sono soprattutto due: lo sradicamento e il desiderio del ritorno alle origini, che potremmo riassumere nel “però un paese ci vuole” di pavesiana memoria. “Non si può vivere senza le proprie radici, senza sentire il calore del mondo”, dice l’umile operaio calabrese. E nonostante sia un uomo semplice, spiega bene il fulcro del suo pensiero: la nostalgia – che porta a considerare il paese come una sorta di paradiso perduto – non riguarda solo gli odori, i colori, i suoni o la vista del mare. È anche questo, ma è soprattutto la voglia di tornare ad essere liberi, padroni di se stessi, di riconquistare un’umanità appannata dalla schiavitù delle apparenze della grande metropoli industriale. Tutto il romanzo vive della contrapposizione Milano/Calabria, inferno/paradiso; a Milano tutto è sporco, l’aria è pervasa da un grigiore che ottunde, persino la pioggia è malevola. A Milano non c’è futuro, nonostante ci sia il lavoro e il benessere; la stessa parola futuro indispettisce il protagonista, che legge nel sostantivo la prospettiva di altri lunghi anni di schiavitù. Per lui, il futuro ha il sapore di una sconfitta e non la speranza di un miglioramento.
La lettura mi ha portato alla mente una celebre lirica di Ungaretti, In memoria, che affronta proprio il tema dello sradicamento: “Si chiamava / Mohamed Sceab […] / suicida / perché non aveva più / patria. […] / Amò la Francia / e mutò nome. / Fu Marcel / ma non era francese / e non sapeva più / vivere / nella tenda dei suoi / dove si ascolta la cantilena / del Corano /gustando un caffè”. Anche il protagonista del romanzo, come il Mohamed della poesia, sente il peso della lontananza della terra dei padri; e proprio questa maledetta lontananza lo trasforma inesorabilmente, rendendolo diverso dal fanciullo e dal ragazzo che era stato. Per questo, quando sul treno Crotone-Milano lo scambiano per un “altoitaliano”, lo smarrimento e una cieca rabbia si impadroniscono di lui, portandolo a chiedersi chi sia veramente. 
Una notazione va fatta in ordine al paradossale titolo. Milano non esiste perché, come dice il protagonista, quella che ho fatto io non è vita, è solo sacrificio in attesa di vivere”. Ha soggiornato quarant’anni nella Capitale economica d’Italia, eppure tutto gli è apparso come un “abbandono al niente”. Milano non è mai esistita perché “per tutti questi anni mi sembra di non aver vissuto” se non nei brevi soggiorni estivi in Calabria, “di non essermi appartenuto, di essere stato un altro per sopravvivere”. Ogni ricordo piacevole, ogni desiderio o speranza, sono riconducibili alla terra natale; il resto è come se non ci fosse mai stato, tutto il rimanente tempo si condensa in una grande nube grigia.
Ma Milano non esiste è anche un’opera di denuncia sociale, che rinnova la tradizione italiana del romanzo (e del cinema) operaio. Il protagonista è uno sfruttato, una pedina di quella società industriale a cui ha sacrificato gli anni migliori della sua esistenza ed ogni energia fisica e morale; in cambio, non ha ricevuto che una misera paga, appena sufficiente per tirare avanti. Si è trascinato per quasi quarant’anni in una città odiata, negandosi ogni svago, resistendo in silenzio ai soprusi quotidiani, non esponendosi politicamente per paura di ritorsioni, abbassando continuamente gli occhi anche davanti alle ingiustizie e camminando piano, quasi per paura di schiacciare le formiche. Eppure, per un profondo orgoglio personale, non ha mai ceduto alle lusinghe della grande città, non ha mai negato le proprie origini, né le ha svendute pur di essere accettato. Di fatto, si è comportato in maniera opposta all’emigrante in Svizzera del film Pane e cioccolata (interpretato da Nino Manfredi), che, pur di sentirsi pari agli altri, non esita a tingersi di biondo i baffi e i capelli, per apparire uno svizzero. Nelle note di copertina, questo romanzo viene accostato a Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, altro caposaldo della letteratura industriale italiana. In verità, il paragone non mi sembra calzante. Il protagonista di Vogliamo tutto è un operaio meridionale che, arrivato a Torino, scopre la lotta di classe e ne fa la ragione della propria vita; egli combatte in prima fila e non si tira indietro negli scontri con la polizia, perché è convinto che il sistema si possa e si debba cambiare. Il protagonista di Milano non esiste, invece, sente il conflitto di classe, ma non pensa che le gerarchie immutabili della società industriale possano essere mutate; per questo, pur partecipando agli scioperi e manifestando solidarietà verso gli altri operai, cerca di farsi vedere il meno possibile, si nasconde quasi, non vuole rogne. I figli lo chiamano “pavido”, ma questa apparente rassegnazione è l’unica arma che gli consente di andare avanti e di realizzare il progetto di costruirsi una comoda casa in paese.      
Inoltre, il libro è una profonda riflessione sul tema – di dirompente attualità – dell’immigrazione. L’essere meridionale è un timbro, un marchio, addirittura una macchia che non si può lavare; è l’impronta della diversità, impressa oggi sulla pelle dei tanti extracomunitari che cercano una vita più dignitosa approdando sulle nostre coste, fuggendo da condizioni drammatiche. E forse portando con sé il sogno di tornare al Paese di origine, dove costruire una casa più grande, spaziosa, per tutta la famiglia. 
In conclusione, Milano non esiste è un’opera complessa, romanzo sociale e psicologico, racconto appassionato e crudo monologo interiore, resoconto di una vana ribellione alle convenzioni e cronaca di una drammatica sconfitta umana.
Dal libro è stato tratto un fortunato spettacolo teatrale, per la regia di Roberto D’Alessandro.


La copertina del romanzo

Nessun commento:

Posta un commento

Commenta l'articolo!