22 dicembre 2016

I capolavori della Galleria Comunale di Arte Moderna di Roma

La Galleria d’Arte moderna di Roma Capitale non va confusa con la più celebre Galleria Nazione di Arte moderna, che ha sede nell’immenso palazzo in stile neoclassico di Viale delle belle arti. Il Museo comunale si trova invece in Via Crispi 24, in un edificio recentemente ristrutturato, un tempo monastero di clausura, adiacente la chiesa di S. Giuseppe a Capo le Case. Il grazioso palazzetto passò nel 1879 in proprietà del Comune di Roma, per effetto del trasferimento della comunità monastica, e negli anni ha avuto diverse destinazioni, fino a quella attuale. L’antico chiostro è stato mantenuto e costituisce un angolo suggestivo di meditazione e riposo, con vista sui tetti di Roma.
Il percorso museale si sviluppa su tre livelli, anche se non tutte le opere sono esposte. La collezione della Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale è infatti costituita da oltre tremila opere, tra dipinti, sculture, disegni e incisioni, che coprono il periodo che va dalla fine dell’Ottocento agli Anni Quaranta del ventesimo secolo. La grande mole di capolavori impone una necessaria turnazione nell’esposizione. Le opere provengono sia da acquisti compiuti dal Comune presso rassegne espositive, che da donazioni private.
Il Museo nacque ufficialmente nel 1925, anche se l’amministrazione capitolina aveva iniziato ad effettuare i primi acquisti già alla fine del XIX secolo; nel corso degli Anni Trenta tale attività ricevette un significativo impulso, grazie alle Biennali e alle Quadriennali che furono organizzate presso il Palazzo delle Esposizioni. Per comprendere la valentia della politica culturale di quegli anni, basti pensare che «le opere acquistate per la Galleria Comunale nelle edizioni delle Quadriennali tra il 1931 e il 1943 furono ben trecentoquarantotto, un patrimonio estremamente interessante che raccoglieva i nomi più significativi dell’arte italiana della prima metà del Novecento, quali Carrà, de Chirico, Carena, Casorati, Capogrossi, Scipione, Cavalli, Afro, Severini, Trombadori, Morandi e molti altri che si andarono ad aggiungere alle opere di Carlandi, di Sartorio, di Coleman, e in genere agli artisti de I XXV della Campagna Romana, oltre a un significativo nucleo di opere della seconda metà dell’Ottocento. Per non dimenticare, poi, un variegato fondo ascrivibile agli anni tra Simbolismo e Secessione e a un nucleo altrettanto importante di opere futuriste degli anni Trenta» (dal sito del Museo). Dopo la Guerra le vicende del fondo museale furono assai travagliate, con diversi cambi di sede e addirittura lo smantellamento della Gallleria, fino alla sua riapertura nel 1995.
Impossibile enumerare tutte le opere degne di menzione; per questo, mi limiterò a descrivere le tre che più mi hanno colpito.
Il pastore, di Arturo Martini (1889-1947), è collocato in posizione strategica, in fondo al corridoio che costeggia l’antico chiostro dell’ex convento. Ad altezza naturale, appoggiato ad un bastone, fissa l’osservatore con i suoi occhi senza pupille eppure pieni di espressività. È considerata una delle opere più significative della scultura italiana del Novecento; realizzata in materiale refrattario, venne esposta alla I Quadriennale romana del 1931, ottenendo un prestigioso primo premio. È una figura senza tempo, ancestrale, semplice ma carica di simbolismi religiosi ed esoterici. Martini voleva tornare al primitivismo delle forme e per farlo aveva necessità di arretrare fino ad un soggetto primigenio, vecchio quanto l’uomo e comune a tutti i popoli e a tutte le latitudini. Nel suo atteggiamento meditabondo, reso ancora più intenso dal materiale umile con cui è stato realizzato, il pastore è la sintesi di millenni di storia, e al tempo stesso la conferma dell’immutabilità della sostanza più profonda dell’essere umano. Una sostanza incoercibile, così simile al divino.
Altro capolavoro della Galleria è il Cardinal decano, ritratto del porporato Vincenzo Vannutelli eseguito da Gino Bonichi, meglio noto come Scipione (1904-1933), figura originalissima della pittura italiana del Novecento. La grande tela è la summa della sua arte, il culmine delle visioni di una Roma livida e sanguinolenta, corrotta e corrosa da un potere che si ammanta di grazia e che ne regge le sorti da oltre due millenni. Il cardinale è seduto in posa classica, il viso quasi caricaturale e le mani scheletriche e vizze. Intorno a lui, angeli che non hanno niente di celestiale e una città che sembra andare in fiamme assieme ai suoi simboli, come la cupola di San Pietro che incombe sinistra alle spalle. Immobile, nonostante i suoi 94 anni, il cardinal decano governa un mondo in sfacelo. Si dice che Scipione fosse affascinato dall’anziano cardinale, dall’autorevolezza che promanava dalla sua figura superba. L’opera, tuttavia, non ha intenti celebrativi: il porporato è l’allegoria di un potere invincibile, che si è preservato perpetrando negli anni gli stessi errori e le medesime ipocrisie.
Con L’angelo rapitore, di Gino Severini (1883-1966), si torna alla centralità dei sentimenti umani. L’opera è dedicata al figlioletto, morto all’età di sei anni. È lui il bambino tra le braccia dell’angelo che lo porta via, rapendolo all’affetto dei suoi cari. Lo sguardo dell’angelo è immoto: non c’è cattiveria nel suo gesto, solo consapevolezza dell’ineluttabilità di un fato di cui è mero esecutore e da cui non può sottrarsi. Tiene con tenerezza il bimbo, quasi volesse proteggerlo da un male più grande della stessa morte. Ai piedi della tomba i giocattoli e i ricordi di una breve esistenza: un fucile a piombini, un grammofono, una riproduzione della Torre Eiffel, una tromba, due fotografie. La grandezza dell’opera sta nel fatto che l’artista è riuscito a comunicare il dramma senza indulgere nel patetismo, il lutto senza cadere nel lacrimevole. Sono le cose, più che le figure umane, a parlare; sono gli oggetti che si caricano di una forza inaspettata e comunicano il messaggio. Il bimbo fissa l’osservatore e alza una mano in un gesto di estremo saluto, pochi istanti prima di essere portato via per sempre.

9 dicembre 2016

"I didn't see it coming": l'infinita storia degli irriducibili del punk

Nell’anno di grazia 1981 il furore punk era già archiviato, Sid Vicious era morto da tempo e Johnny Rotten si era rifatto una vita coi Public Image Ltd. I Sex Pistols, coerenti con la filosofia del no future, rappresentavano un passato glorioso da destinare ai libri di storia. Steve Jones e Paul Cook, rispettivamente chitarra e batteria dei Pistols, avevano già da un paio d’anni fondato i Professionals, un gruppo che, sfruttando la popolarità dei fondatori, aveva firmato con la Virgin. Dopo un singolo di rodaggio, avrebbero dovuto esordire su LP, ma una serie di problemi legali ritardarono l’uscita del disco, che vide la luce solo nel 1990 con una nuova etichetta e in edizione limitata. Dopo un cambio di formazione e un tour prima annunciato e poi disdetto, i Professionals tornarono in studio di registrazione e nel novembre 1981 licenziarono I didn’t see it coming (letteralmente, Non l’ho visto arrivare). Mai titolo fu più profetico: pochi giorni dopo la pubblicazione, tre membri del gruppo rimasero feriti in un incidente stradale negli Stati Uniti, in Minnesota, dove si erano recati per promuovere il lavoro. L’incidente costrinse la band ad un periodo di inattività, che contribuì a far cadere nel dimenticatoio il disco, nonostante alcune buone recensioni. Nel 1982 tornarono in tour negli Stati Uniti, ignorando ancora una volta l’Inghilterra, e in quell’occasione suonarono come gruppo di apertura ai concerti dei Clash. Alla fine del tour, Cook, Meyers e Mc Veigh tornarono in patria, mentre Jones rimase negli Usa, segnando di fatto lo scioglimento della sfortunata formazione. A trent’anni di distanza, nel 2015, i Professionals, guidati dal solo Paul Cook alla batteria, sono ritornati con una raccolta, una serie di concerti e un annunciato nuovo album.
Nell’accingersi a recensire I didn’t see it coming (1981), bisogna partire da una domanda: cosa accade se le figure meno carismatiche di una band arcinota decidono di provarci da sole? Potrebbero sfornare il capolavoro che non ti aspetti, oppure un disco pietoso. Esiste però una terza strada, quella di fatto percorsa dai nostri: licenziare un disco onesto, non straordinario ma con buoni spunti. L’album in questione segue la strada maestra dei Sex Pistols: si tratta di punk che strizza l’occhio al glam, fatto di canzoni più lunghe e meno veloci dello standard, con pezzi interessanti, che qualche volta denotano tuttavia una carenza di fantasia nelle soluzioni ritmiche. Privo di particolari doti vocali, il gruppo spesso si affida ai cori e ad un robusto muro del suono, grazie alla collaborazione di Paul Meyers al basso e Ray Mc Veigh alla seconda chitarra. La copertina tradisce l’intenzione di pestare duro: di grande impatto, rappresenta un pugile colpito in pieno viso da un potente destro, che evidentemente non aveva visto arrivare (come da titolo).
Il lato A è decisamente il migliore. Si parte forte con i primi solchi di The magnificent, che la leggenda vuole sia dedicata a Sid Vicious. In effetti il brano narra della rapida ascesa e dell’altrettanto fulminea caduta di un personaggio del mondo dello spettacolo. Potente il ritornello: «Who put you on the wall?/ Who's the one who has to watch you fall?/ Who put you on the pedestal?/ Who's the one who wins out pass the fool?». Segue Payola, canzone ironica che stigmatizza la pratica, in uso tra le radio, di farsi pagare dalle etichette discografiche (o dagli stessi gruppi) in cambio della messa in onda dei loro brani. Il pezzo ha un ritmo sostenuto con le chitarre elettriche a farla da padrone, anche se è evidente una semplicità della scrittura, che indulge nel ritornello orecchiabile. La terza traccia, Northern slide, è una delle migliori, grazie ad una inusuale tromba che cerca di imporsi sopra il muro chitarristico. Seguono i nostalgici ricordi di vita punk di Friday night square, pezzo più lento e dal ritmo cantilenante, che affronta la dipendenza dalle droghe. Espliciti i versi «Some black dude, he said, “Come along with me/ I think I know the type of thing you need.”/ I will wait, I will get anew,/ I hope she comes and gets me pretty soon./ Feeling hard, trying to feel so mean,/ I always hate these type of scenes». Chiude la facciata la bellissima Kick down the doors, che profuma di riscatto di periferia, di affrancamento da una vita balorda. È una ballata che richiama alla mente le cose migliori dei Generation X e che si impone grazie ad uno scaltro ritornello.
Il secondo lato si apre col botto. Little boys è tiratissima e splendida, un canto di protesta che non avrebbe sfigurato nel repertorio dei Clash. È l’urlo dei Professionals contro i simboli di una società oppressiva: il lavoro, la scuola e la polizia. Da antologia punk i primi versi: «Little boys like you, they got a job to do/ in a uniform, I’ll tell you what to do./ Help old ladies across the street,/ direct the traffic in the sleep./ It’s a job that you won’t mind». Trascurabili le successive All the way e Crescendo, meri riempitivi non degni di nota. Il livello si alza alla fine con Madhouse, il grido di disperazione di un internato in un manicomio che chiede aiuto a chi non può o non vuole sentirlo, e con la conclusiva Too far to fall, in cui ritorna lo straniante suono della tromba sopra una piacevole melodia sostenuta dalle due chitarre.
Pur non trattandosi di un LP indispensabile, va comunque premiata la pervicace coerenza del gruppo, che rimase ancorato ai fasti degli anni ’70 senza farsi abbagliare dalle nuove sonorità elettroniche. La furia iconoclasta dei Sex Pistols era già un lontano ricordo, ma i Professionals misero egualmente entusiasmo e mestiere al servizio di un buon album, la cui principale pecca, se ne vogliamo proprio individuare una, è quella di correre con il freno tirato in alcuni punti.
È stato ristampato in CD nel 2001 dalla EMI, ma è molto meglio procurarsi il vinile usato, anche se nell’edizione italiana (codice VIL12220) mancano i testi e la confezione è piuttosto scarna.
La copertina del disco
La band, fotografia sul retro dell'edizione italiana

Per chi volesse saperne di più, la storia del gruppo è raccontata sul sito comune di Cook e Jones: http://www.cookandjones.co.uk/

28 novembre 2016

I Litfiba alla ricerca dell'isola che c'è: "Eutòpia"

Sebbene molti recensori abbiano evidenziato un netto distacco rispetto al precedente Grande nazione, a mio avviso i Litfiba hanno invece proceduto lungo la strada della continuità. Grande nazione segnava il ritorno dello storico duo Pelù-Renzulli dopo tredici anni, ma soprattutto si caratterizzava per una buona dose di watt, dopo la parentesi pop di Infinito, album all’epoca sottovalutato ma non privo di spunti. Eutòpia è un disco quadrato, di solido rock, grazie ad una pimpante sezione ritmica (Luca Martelli, già coi Rossofuoco, e Ciccio Li Causi, ex Negrita) e al costante fraseggio tra chitarre e tastiere (suonate anche dal mitico Antonio Aiazzi).
Nel rispetto della tradizione, i Litfiba sfornano dieci canzoni tiratissime, quasi tutte di protesta/impegno civile, anche se a volte le armi sembrano un po’ spuntate. Colpa non tanto dei testi, che pure in certi momenti fanno rimpiangere la felice vena polemica e ironica del passato, quanto piuttosto del fatto che il nemico è cambiato, è diventato più subdolo, feroce e sanguinario. Oggi il nemico indossa le vesti del terrorista, del finanziere senza scrupoli o del feroce tiranno, contro cui gli alfieri del rock possono poco o nulla. Eppure, i Litfiba sanno che anche in quest’epoca c’è maledettamente bisogno di un canto di protesta, che cercano caparbiamente di portare avanti.
Eutòpia è però soprattutto un inno di speranza, una risposta al conformismo di massa e al vuoto democratico odierno. Come chiarito da Piero e Ghigo nel corso di una conferenza stampa, è la somma di tutte le democrazie, il buon luogo dove si lotta contro l’appiattimento delle idee, la prepotenza e l’infelicità. I due hanno tenuto a precisare che Eutòpia non è (solo) un’utopia, ovvero un non luogo, ma il luogo concreto delle idee o, se si vuole, il mondo ideale, l’isola che c’è oltre il conformismo del pensiero. A corredo di queste dichiarazioni di intenti, la grafica e le foto interne del libretto richiamano atmosfere steampunk, con i due compari che si aggirano tra sommergibili e locomotive a vapore del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano.
Si parte con la potente Dio del tuono, canzone di impatto che serve soprattutto a sciogliere il ghiaccio. Segue L’impossibile, primo singolo radiofonico. La canzone è un’invettiva contro i potenti della Terra, in cui Piero immagina di essere un novello Davide che si scaglia contro il gigante. Volutamente orecchiabile, si stampa nella mente e si candida a diventare un inno di questi nuovi Litfiba 2.0. Maria coraggio, dedicata a Lea Garofalo, che ebbe il coraggio di ribellarsi alla ndrangheta e per questo fu uccisa, è uno dei pezzi migliori, con testo e parti vocali convincenti. I Litfiba tornano ad alzare la voce contro tutte le mafie, come nel 1993 con il riuscitissimo Terremoto; il brano trasuda impegno civile, con un ritmo martellante che rafforza il messaggio. Trascurabili Santi di periferia e Gorilla go; quest’ultima, in particolare, richiama certe cose non proprio entusiasmanti del Pelù solista (Bomba boomerang), ma è impreziosita da un bel lavoro di Ghigo alla chitarra, con il suo inconfondibile wah-wah. Si ritorna su livelli alti con la successiva In nome di dio, di stringente attualità perché parla delle guerre di religione, dell’idiozia di chi non esita ad uccidere in nome del proprio idolo e dell’ipocrisia dell’Occidente, che con le bombe impone il culto del Dio Denaro.
Ripete gli stilemi delle più classiche ballate litfibiane la settima traccia, la meravigliosa Straniero. Ascoltarla è come salire sopra una macchina del tempo, tra echi di Tex e Spirito, con il mellotron suonato da Aiazzi a reggere le fila. Sono anni che Piero sostiene la causa dei migranti e dell’abolizione delle frontiere; indipendentemente da come la si pensi in proposito, non si può certo dire che i Litfiba vogliano cavalcare l’onda, o che manchino di coerenza. Il testo ispiratissimo e l’atmosfera sognante ne fanno l’apice del disco.
Il trittico finale vive di alti (Oltre ed Eutòpia) e bassi (Intossicato). La prima è quella che più mi ha ricordato le situazioni eighties di Litfiba 3, con un arrangiamento decisamente migliore. La title track è probabilmente destinata a diventare un classico del repertorio, grazie ad un ritornello che si presta molto bene ai live: «Se Eutòpia è un sogno io voglio continuare a sognare / Se Eutòpia è uno sbaglio io voglio continuare a sbagliare / Se Eutòpia è lotta io voglio continuare a lottare».
Il rischio che una band longeva come i Litfiba corre, proponendo un ennesimo album di inediti, non è tanto quello di licenziare un disco brutto (perché il mestiere c’è e si sente), né quello di ripetersi, quanto piuttosto quello di non aggiungere nulla di nuovo rispetto ad una discografia già compiuta. Non so se con i lavori precedenti i Litfiba abbiano detto tutto quello che avevano da comunicare, né se di Eutòpia ce ne fosse davvero bisogno. Fatto sta che il disco suona potente e piacevole, rendendo di più nei brani che occhieggiano al passato (Oltre, Straniero, Maria coraggio) rispetto a quelli ascrivibili al sound del nuovo millennio (Gorilla go, Dio del tuono). Credo funzionerà bene dal vivo, nella speranza che venga riproposto il magico fraseggio tra le chitarre di Ghigo e le tastiere di Aiazzi, che riesce ancora ad emozionare. Lunga vita al bandido Litfiba!
Una foto tratta dal libretto interno del disco

21 novembre 2016

La perfetta strategia del ragno, che tutto avviluppa e niente rivela

Che la verità abbia mille volti, che spesso si nasconda dietro un velo di apparenza, che possa essere raccontata da cento voci secondo cento diverse cadenze, è fatto noto. Meno scontato è il comprendere che non si tratta di un discorso astratto, filosofico o peggio ancora ozioso. Sostenere che l’apparenza potrebbe non essere rispondente al vero, non è un balocco intellettuale. Per asseverarlo, però, servono prove che abbiano la capacità di mettere spalle al muro lo scettico.
Questa sorta di straniamento è la sensazione che si prova dopo la visione di Strategia del ragno, lungometraggio del 1970 di Bernardo Bertolucci, interpretato, tra gli altri, da Giulio Brogi e Alida Valli. Il film è coraggioso, e non solo per la tematica trattata, ma per la precisa contestualizzazione storica ed emotiva in cui la stessa è calata. Per dimostrare la sua tesi, ovvero la capacità del vero di nascondersi e di assumere multiformi e stridenti volti, Bertolucci coinvolge addirittura la Resistenza, quale evento collettivo alla base del contemporaneo vivere democratico, totem intoccabile che non può che essere raccontato ad una sola voce. Il regista, invece, rovescia coraggiosamente questo indiscutibile principio, penetrando oltre il velo delle verità acriticamente accettate, come già aveva tentato di fare lo scrittore Beppe Fenoglio.
Un giovane, dopo molti anni di lontananza, ritorna a Tara, sua città natale, per scoprire la verità sull’assassinio del padre, che portava il suo stesso nome. Athos Magnani è un eroe per la cittadina: a lui sono dedicati la via principale, un circolo ricreativo e un busto in piazza davanti alla chiesa. Da tutti è ricordato e venerato quale martire della Resistenza, ucciso dai fascisti per rappresaglia durante la prima del Rigoletto. La morte, oltre a trasformarlo in eroe, ha dato linfa vitale al movimento antifascista, fungendo da traino morale per quanti non avevano ancora aperto gli occhi di fronte alla violenza del regime. I responsabili del delitto, però, non erano mai stati individuati, anche perché il processo era stato una vera e propria farsa. Per questo, il figlio di Athos decide di ritornare a Tara, per scoprire chi ha ucciso il padre e, magari, consumare una personale vendetta. A questo punto si attua la strategia del ragno, perché è la stessa comunità cittadina ad ordire una fitta trama di rimandi e corrispondenze volti a nascondere la verità, che nessuno vuole accettare. Si viene così a sapere che forse Athos aveva tradito i suoi compagni, ed aveva chiesto loro di ucciderlo, facendo ricadere la colpa sui fascisti, perché «un traditore è dannoso anche morto, mentre è molto più utile un eroe, un eroe che la gente possa amare». Si viene a disegnare un piano complesso: costruire un martire, una vittima del regime, il cui luminoso esempio indichi agli altri la via da seguire.
Il figlio è sconvolto dalla rivelazione, al punto da non riuscire più a determinarsi. Due sono le strade possibili: tacere e lasciare imperituro il ricordo del padre, oppure gridare ai quattro venti quello che ha scoperto, offuscando per sempre la memoria di un mito. Nessuna soluzione viene presa, perché la tela del ragno tessuta intorno al giovane non ne imbriglia soltanto i movimenti, ma ne ottunde il cervello e la capacità di ragionare. Anzi, la tela è talmente perfetta che anche quando il figlio, giunto ad odiare il padre, compie l’immondo gesto del vilipendio della sua tomba, l’evento non fa che rinnovare nel paese l’ammirazione per il paladino dell’antifascismo.
Alla fine nessuna domanda ottiene risposta e nessun dubbio viene sciolto. Chi era veramente Athos Magnani: un traditore, un eroe, o forse nessuno dei due? Athos era quello che irrideva in pubblico i fascisti ballando allegramente sulle note di Giovinezza, oppure quello che ha rivelato ai Carabinieri il luogo dove era nascosta la bomba per uccidere Mussolini? E soprattutto, se anche ha tradito, per quale ragione l’ha fatto? Semplicemente per umana paura, oppure per non mietere vittime innocenti assieme all’odiato tiranno? Queste e altre le domande che restano insolute, congelate nella perfetta strategia del ragno, che tutto avviluppa e niente rivela.
Athos Magnani (Giulio Brogi) balla sulle note di Giovinezza
(foto tratta da Wikipedia, pubblico dominio)

9 novembre 2016

We want bread, but roses too!

“Vogliamo il pane, ma anche le rose” è il famoso slogan di uno sciopero delle lavoratrici del settore tessile tenutosi nel 1912 a Lawrence, nel Massachussets. Con questa frase, divenuta patrimonio dell’immaginario collettivo, si vuole indicare il diritto delle donne lavoratrici, e più in generale della classe operaia, a beneficiare di condizioni tali da consentire il pieno sviluppo della personalità umana: il pane e le rose, il sostentamento materiale e il benessere psico-fisico. L’uomo non è una macchina e il lavoro non deve servire alla mera sopravvivenza, ma essere funzionale alla realizzazione completa della personalità. Per comprendere quanto il principio abbia influenzato la storia moderna dell’Occidente, si potrebbe azzardare che sia stato recepito anche dalla nostra Assemblea costituente, e che riecheggi nei primi articoli della Carta fondamentale (artt. 2, 3 e 36).
Ken Loach, da sempre attento alle dinamiche sociali e alla difesa dei più deboli, ha deciso di utilizzare lo slogan come titolo di uno dei suoi film più riusciti, Bread and roses del 2000. La pellicola precede di un anno un altro importante lavoro, Paul, Mick e gli altri, che affronta la condizione dei ferrovieri inglesi a seguito della privatizzazione del trasporto su rotaia. Rispetto a quest’ultimo, in cui prevale l’aspetto  documentaristico, Bread and roses si caratterizza per una maggiore attenzione verso l’intreccio narrativo, con spunti che travalicano i confini del drammatico per lambire quelli della commedia.
La vicenda è ambientata negli Stati Uniti, tanto che si parla del primo film “americano” di Loach. Protagonista è Maya, una ragazza messicana che riesce dopo anni di sacrifici a raggiungere la sorella a Los Angeles, anche se da clandestina. La speranza di una vita migliore, però, si scontra immediatamente con la dura realtà. La società americana si mostra chiusa verso gli immigrati, quasi privi di considerazione sociale e destinati ai lavori meno qualificati e scarsamente tutelati. Maya trova impiego presso la ditta di pulizie dove è occupata la sorella; il lavoro è duro e malpagato, oltre che privo delle più elementari garanzie, quali le ferie e l’assistenza sanitaria. Gli addetti (che nel doppiaggio italiano vengono chiamati poco elegantemente “pulitori”), quasi tutti latinos, sono sottoposti a turni massacranti, sotto lo schiaffo dei caporali che minacciano e attuano licenziamenti per ogni minima mancanza. Sarà grazie all’aiuto di uno scaltro sindacalista, interpretato da Adrien Brody, che gli operai riusciranno a ottenere l’agognato riscatto e un futuro migliore, in un finale dolceamaro di grande realismo e potenza emotiva.
Anche in questa pellicola, Ken Loach mette in scena un cinema militante, impegnato a dare voce agli ultimi, quelli a cui è tolto persino il diritto di gridare per far valere i propri bisogni. Al di là dell’ingenua fiducia verso il movimento sindacale, il messaggio che il regista inglese vuole lanciare è più generale, perché si riferisce al significato stesso della lotta e della mobilitazione non violente, considerate le uniche possibili strade per l’affrancamento dalla schiavitù del bisogno. Non si può ridurre la pellicola a mero slogan; Ken Loach usa uno slogan per lanciare un messaggio, ma lascia che siano i protagonisti a parlare, ad esprimere ansie e bisogni dell’uomo comune, con un linguaggio semplice che crea subito una forte empatia con lo spettatore.
Va infine evidenziata la grande attualità del film, che affronta problematiche tuttora vive e, se possibile, ancora più drammatiche rispetto a quindici anni fa. Alcune di queste tematiche sono strettamente legate alla società statunitense, come l’assenza di un’adeguata assistenza sanitaria pubblica o il tramonto del “sogno americano”. Altre, invece, ci riguardano da vicino: il fenomeno dell’immigrazione e il continuo svilimento del lavoro dipendente. Mai come oggi si sente la necessità di affermare questo principio: il lavoro è un valore in sé, ma non fino al punto di appiattire l’essere umano, di ridurlo a mera macchina, a misero ingranaggio della produzione. Abbiamo bisogno del pane, ma anche delle rose: come si può dare torto al rivoluzionario Loach?
Una scena del film

2 novembre 2016

Aspettando "Mercurio Loi": lunga vita al fumetto italiano di qualità!

La decisione di pubblicare una nuova serie a fumetti in un’epoca in cui si legge sempre di meno è già di per sé una scelta coraggiosa. Presentare un personaggio che si muove nella Roma papalina del 1826, poi, parrebbe addirittura un azzardo. Eppure questo interessante esperimento vedrà la luce a partire dalla prossima primavera: si tratta di Mercurio Loi, la nuova serie creata da Alessandro Bilotta, la cui prima uscita è prevista per maggio 2017. Gli albi saranno a colori e avranno il classico formato bonelliano da 98 pagine.
Mercurio Loi non è propriamente un debuttante nella scuderia Bonelli, perché è stato protagonista dell’omonimo numero della collana “Le storie” uscito nel gennaio del 2015. Difficile classificarlo entro schemi classici: non è propriamente un investigatore, né semplicemente un curioso, non è soltanto uomo di pensiero, né esclusivamente d’azione, eppure riunisce in sé i caratteri di tutte queste figure. Mercurio è un professore universitario, un erudito conoscitore di ogni angolo della Città eterna; secondo le parole del suo creatore, egli è «un flâneur che, per caso o per la sua curiosità, finisce coinvolto in vicende più o meno misteriose». Accompagnato dal fedele assistente Ottone, Mercurio vaga per l’Urbe alla ricerca di tutto quanto possa stimolare la sua mente deduttiva, magari ingegnandosi di risolvere qualche mistero che non fa dormire sonni tranquilli alle autorità o ai membri della Sharada, la società segreta di cui egli stesso fa parte.
Davvero suggestiva l’ambientazione: la Roma dei primi anni dell’Ottocento, già musa ispiratrice di Magni e Monicelli. Era una città ricca di sotterranei fermenti, dove religione e superstizione, cattolicesimo e residui di paganesimo si intrecciavano strettamente. Ma soprattutto era la capitale dello Stato Pontificio, il cui Governo, truce e reazionario, era ossessionato da carbonari e giacobini, nonché impegnato a combattere i primi moti liberali e risorgimentali. Come chiarito dal creatore della serie, si tratta di «una Roma che vive un’epoca di grandi stranezze, districandosi tra cospiratori, sette segrete, personaggi bizzarri e insoliti, in un momento storico talmente strano che il Papa era re». In occasione del Lucca Comics, sono stati forniti nuovi dettagli; con eccellente sintesi si è detto che la Roma del 1826 era «una città di pazzi»«una città di maschere», in cui tutti avevano due identità e proteggevano quella segreta indossando un simulacro sulla faccia. Bilotta ha dichiarato che il centro storico sarà lo spazio e al tempo stesso il confine entro cui si muoveranno i personaggi; spero, tuttavia, che Mercurio sarà impegnato anche in qualche avventura “all’estero”, magari a Napoli, l’unica che può degnamente rivaleggiare con Roma quanto a scenari, misteri, maschere e contraddizioni.
In coerenza con l’ambientazione, la serie non affronterà tematiche soprannaturali o fantastiche; pur legate ad un preciso contesto storico, le vicende si focalizzeranno su temi filosofici e psicologici di valenza universale, che in fondo caratterizzano anche la contemporaneità: la riflessione sul male, sulla follia e la corruzione del denaro e del potere.
Le premesse sono tutte positive, anche se resta aperto un interrogativo: riuscirà Mercurio Loi a guadagnarsi uno spazio in cui sopravvivere, in un mercato del fumetto sempre più asfittico in termini di vendite? Il problema non è peregrino; si pensi ad Adam Wild, la serie bonelliana ambientata nell’Africa coloniale, che ha ottenuto grandi consensi di critica ma di cui è stata annunciata la chiusura dopo ventisei numeri. La mia non vuole essere una provocazione; credo semplicemente che la cosa più difficile per una nuova iniziativa editoriale sia trovare un proprio pubblico. Mercurio Loi rischia di diventare un eccellente prodotto di nicchia, destinato ad un pubblico colto, interessato alle vicende storiche che fanno da sfondo ad ogni albo. Sia chiaro che questo non è un difetto, perché mai come in quest’epoca di conformismo di massa c’è bisogno di prodotti culturali di qualità. Il problema è sempre quello dei numeri del mercato, l’odioso tiranno con cui purtroppo anche i fumetti devono fare i conti. Auguro dunque lunghissima vita a Mercurio Loi, eroe di una Roma magica che non c’è più, erede delle grandi maschere della tradizione italiana.

Una vignetta che raffigura Mercurio Loi (dal n. 28 de "Le storie")

20 ottobre 2016

In difesa della musica: breve elogio del disco

Assistiamo ad una costante smaterializzazione della musica, tanto che si parla di una graduale scomparsa del supporto. Il disco non è più l’unico strumento per ascoltare musica, e neppure il principale: i lettori mp3 e gli smartphone sono i mezzi di riproduzione oggi più utilizzati. Anche se in controtendenza, ritengo invece che il disco sia un oggetto da preservare per molte ragioni, che vale la pena elencare.
1. Il piacere tattile. Il disco è tangibile, ha una massa e occupa uno spazio nella realtà materiale; in una parola, esiste. Questo è il suo vero punto di forza, nonché la differenza fondamentale (e ovvia) rispetto alla musica digitale. Un disco lo puoi tenere tra le mani, possiede un suo calore, lo puoi vedere e toccare, non è un insieme anonimo di dati informatici.
2. Il rituale. Ascoltare un disco presuppone un rituale, che preannuncia e amplifica il piacere. La musicassetta va estratta dalla custodia, eventualmente riavvolta, quindi inserita nella piastra. Nel caso del cd la procedura è più rapida, mentre con gli LP diventa più complessa e liturgica. Il vinile va estratto delicatamente dalla sua doppia custodia, spolverato, appoggiato gentilmente sul piatto; solo a questo punto è possibile alzare il braccio e posare delicatamente la testina, in attesa che accarezzi i primi solchi in un lieve fruscio.
3. Il collezionismo. È un altro imbattibile punto di forza, che si spiega da sé. I dischi possono essere collezionati, ordinati per genere o artista, sistemati e spostati a piacimento. Vedere la propria collezione crescere è un piacere che nessun iPod potrà mai regalare.  
4. La grafica. Molti dischi sono diventati famosi anche per la loro veste grafica; gli LP, in particolare, grazie al grande formato, sono delle vere e proprie opere d’arte. Per me è inconcepibile separare la musica dalla copertina o dal libretto interno dell’album. Minimale o sovrabbondante, tradizionale o rivoluzionaria, la veste grafica è un elemento essenziale dell’immaginario rock. Tantissime le copertine che hanno fatto storia, diventando vere e proprie icone: tra tutte, mi viene in mente il volto angosciato del primo LP dei King Crimson. Ci sono poi i libretti interni, con le foto e i testi, di fondamentale importanza per conoscere le formazioni, i tempi ed i luoghi  di lavorazione dell’album, la filosofia dell’artista.
5. I negozi di dischi. Sono dei luoghi magici, veri e propri santuari del suono. Andrebbero preservati, perché purtroppo stanno quasi scomparendo, travolti dalla crisi dell’industria del disco e dai megastore. Ogni negozio ha una propria impostazione, che di solito rispecchia i gusti del proprietario più che quelli dominanti del mercato: sopravvivono ancora esercizi specializzati in progressive, punk, new wave o jazz, con personale competente a cui puoi chiedere un consiglio. Scaricare musica da internet non può neppure lontanamente eguagliare il piacere di perdersi in un negozio di dischi.
6. L’ascolto meditato. La musica sta sempre di più diventando un mero sottofondo, in un ascolto “mordi e fuggi” che la riduce a prodotto uguale a tanti altri. Mezzi pubblici, strade e parchi sono pieni di persone che ascoltano musica con i telefonini anche solo per isolarsi dal contesto. Il disco, invece, pur potendo essere un ottimo sottofondo alle attività quotidiane, si presta di più ad un ascolto meditato, riflessivo, maturo.
7. Il costo. Sembra una contraddizione, ma l’esborso economico è un altro punto in favore dell’ascolto tradizionale. I dischi costano, a volte anche tanto. Di conseguenza, prima di buttarli via, è bene ascoltarli più volte, per capire se è possibile smentire la prima negativa impressione. A me è successo così con Linea gotica dei C.S.I. Al primo ascolto sono rimasto profondamente deluso, tanto mi appariva incomprensibile. Mi sono allora imposto ripetuti ascolti, se non altro per giustificare le ventiseimila lire che avevo speso. C’è voluto tempo per capirlo e assimilarlo: oggi è uno dei miei album preferiti.
8. La qualità del suono. Lungi da me addentrarmi in discorsi tecnici, perché non ne ho la competenza. I musicofili ancora discutono se sia meglio il suono del compact disc o quello del vinile, ma di una cosa sono certi: la qualità del suono impone l’esistenza di un supporto materiale.
9. Il valore dell’usato. I dischi non muoiono mai, hanno sempre una seconda o una terza vita. Possono essere venduti, regalati o scambiati con altri collezionisti. Anche a distanza di quarant’anni li puoi trovare sui banchi polverosi di un mercatino dell’usato, magari facendo un buon affare.
LP "Litfiba 3" sul piatto di un giradischi

3 ottobre 2016

"Autostop per l'Himalaya" di Vikram Seth: la Cina che non ti aspetti

Il giovane indiano Vikram Seth, futuro autore di libri di successo, nell’estate del 1981 decise quasi per caso di intraprendere un viaggio proibitivo, sia per le condizioni climatiche e delle infrastrutture che per gli ostacoli burocratici: dalla Cina all’India passando per il Tibet. Autostop per l’Himalaya è l’asciutto e piacevole resoconto di quell’itinerario, vincitore del Thomas Cook Travel Book Award, importante riconoscimento per la narrativa di viaggio. All’epoca dei fatti, Seth era uno studente dell’Università di Stanford, residente da due anni nella città cinese di Nanchino per un programma internazionale di studi. Dopo la rigida chiusura della Rivoluzione culturale, la Repubblica Popolare stava iniziando, sia pur timidamente, una nuova fase di apertura verso il mondo, consentendo gli scambi culturali con studenti stranieri. Raramente, però, era consentito ai forestieri di viaggiare da soli per il Paese; le autorità avevano cura di pianificare nei minimi dettagli gli itinerari per gli stranieri, che di fatto venivano sottoposti ad un controllo più di stampo paternalistico che autoritario. Vikram Seth decise di rompere il protocollo: dovendo ritornare in India per le vacanze estive, pensò di farlo nel modo più avventuroso possibile: viaggiare in autostop fino in Tibet, arrivando infine a Delhi passando per il Nepal.
All’epoca la Cina era agli albori della rapida trasformazione economica e tecnologica che l’avrebbe trasformata nel gigante dell’industria che oggi conosciamo. La Rivoluzione culturale, nella sua cieca furia iconoclasta, aveva distrutto tanti aspetti della tradizione, ma non era riuscita a mutare l’animo più profondo della nazione. Questo aspetto viene in più occasioni rimarcato da Seth, che si sofferma sui cambiamenti in atto con uno spirito da saggista, concentrando l’attenzione sui profili sociologici, economici, agricoli e demografici, senza addentrarsi più di tanto nelle dinamiche politiche. All'autore interessa principalmente descrivere le caratteristiche immutabili del popolo cinese, quelle che il socialismo non è riuscito a scalfire: la curiosità verso gli stranieri, l’attenzione alle loro esigenze e una sincera e squisita ospitalità.
Il libro ha un buon ritmo, dettato dall’ansia del viaggiatore di uscire in fretta dai confini cinesi, prima della scadenza del visto che avrebbe comportato l’inevitabile fermo di polizia. Questo, tuttavia, è anche il punto debole del racconto, il cui andamento è puntualmente rallentato dalla minuziosa descrizione degli ostacoli burocratici relativi ai visti di ingresso e di uscita sul passaporto. L’autore si dilunga su questi aspetti, sia perché hanno costituito uno dei problemi più rilevanti del viaggio, sia per descrivere la rigidità dei funzionari cinesi, sempre fedeli al motto “il regolamento è il regolamento”. Alla lunga, però, le continue preoccupazioni di carattere amministrativo rendono poco avvincente la lettura. Molto più interessanti sono le pagine in cui l’autore si sofferma su alcuni aspetti delle culture cinese e tibetana, come la cucina, la religione, l’arte e la letteratura. Vivide e suggestive, poi, sono le descrizioni della natura, dei paesaggi e delle strade al limite della praticabilità.
Il giudizio complessivo sull’opera rimane un po’ sospeso. Personalmente mi aspettavo qualcosa di più, soprattutto sul Tibet e le sue tradizioni. Il titolo è in questo senso fuorviante, perché oltre due terzi della vicenda si svolgono in Cina e in Nepal; inoltre, la maggior parte delle persone incontrate lungo la strada sono han (l’etnia dominante in Cina) e non tibetane. La parola Himalaya richiama alla mente di noi occidentali immagini diverse da quelle che il lettore troverà nel libro; anziché sulle nevi perenni, si viene catapultati su strade fangose che attraversano fiumi in piena, modesti insediamenti urbani di periferia e anonimi uffici governativi. Un romanzo-saggio che mi sento comunque di consigliare, almeno per avere un’idea di quella Cina che (forse) non esiste più.

22 settembre 2016

"La notte dei due silenzi" di Ruggero Cappuccio: la verità ama nascondersi

Quanti volti possiede la verità? A quante voci può essere narrata? E soprattutto, quante sono le possibili versioni di uno stesso avvenimento? Questi e altri sono gli interrogativi che il bel romanzo di Ruggero Cappuccio ispira nel lettore. Una risposta univoca non è data, perché forse la verità ama nascondersi, e ciò che chiamiamo realtà non è altro che una delle possibili e soggettive rappresentazioni degli eventi del mondo fenomenico.
La notte dei due silenzi è un racconto labirintico a più voci, con ben sette narratori che si avvicendano nell’esposizione dei fatti. La vicenda si svolge nell’anno 1858, principalmente nel meraviglioso palazzo di Conca dei Marini in cui vivono i due Principi Altomare. Alessandro, il maggiore, è affetto da un insondabile male di vivere, che da anni lo costringe al mutismo, alla vita meditabonda e solitaria di chi ha eretto un muro tra sé e il consorzio umano, perché «intenebrito nello sprezzo selvatico della sua solitudine al mondo». All’origine del suo oscuro male vi è una dolorosa vicenda personale, la scomparsa della moglie Chiara della Serena, ufficialmente morta di vaiolo nel convento dove si era ritirata al comparire dei primi sintomi del morbo. L’infelice condizione di Alessandro, che lo porta a trascurare gli affari di famiglia, muove a compassione il fratello Eugenio. Quest’ultimo chiede soccorso al medico francese Georges Bernard Descuret, un luminare di fama internazionale che tempo prima aveva guarito la madre, affetta da una malattia nervosa. Contattato da Eugenio per il tramite di un’accorata missiva, Descuret non esita a lasciare la Francia per raggiungere di nuovo Conca dei Marini, da cui mancava da ben diciotto anni. Sciogliere il groviglio annidatosi nell’animo e nella mente di Alessandro diventa l’ossessione del medico francese, pienamente consapevole della complessità del caso. Il male di Alessandro, infatti, non può essere semplicisticamente spiegato come la reazione ad un lutto, ma ha radici più profonde, nella connotazione stessa del suo essere, di un uomo cioè che è «un genio della malinconia creata, e che appunto di veleni malinconici prodotti da lui nutriva tutto se stesso e tutto il suo corpo». Descuret comprende che il male di Alessandro può essere conosciuto solo indagando sulla passione che ha avvinto il nobiluomo e sua moglie Chiara. È lo stesso Alessandro a spiegarlo, condensando in poche ma potenti parole la malia che la donna produceva su di lui: «ella aveva il potere di imporre presente il suo corpo nei momenti in cui, lontano da lei, evocavo la sua ombra; aveva il potere di imporsi come un’ombra mentre il suo corpo mi era innanzi tutto intero». Alessandro non ama Chiara, ma l’idea che si è fatto di lei nei lunghi pomeriggi dell’adolescenza, popolati soprattutto di silenzi, in cui il loro affetto è sbocciato. Questo è il tema centrale del romanzo. Ruggero Cappuccio è abilissimo a districarsi in un terreno scivoloso, nell’analisi dei sentimenti idealizzati, destinati a soccombere alla prova del vero.
La vicenda di Alessandro e Chiara travalica le mura del palazzo di Conca dei Marini, alimenta i pettegolezzi dei salotti buoni, fino a diventare un vero e proprio caso di Stato. In quest’ottica, il romanzo è un quadro fedele degli ultimi anni del Regno delle Due Sicilie e soprattutto della sua aristocrazia molle e priva di iniziativa, più interessata al chiacchiericcio di corte che agli affari di Stato. Il cicaleccio arriva molto in alto, fino a giungere alle orecchie dello stesso Re Ferdinando, che si interessa della vicenda dei due giovani e si prodiga per chiarirla. E proprio intorno alla figura di Re Ferdinando sono costruite le più belle pagine del romanzo. Cappuccio riabilita il personaggio storico, tradizionalmente raffigurato come il malvagio “Re bomba”, l’insensibile e dispotico monarca. Ne “La notte dei due silenzi”, invece, viene raffigurato come un uomo intelligente e persino ironico, onusto del peso del governare e carico di una sua particolarissima partecipazione alle vicende mondane. Mirabile il suo discorso sul potere, talmente acuto che meriterebbe di essere trascritto nei libri che raccontano la storia del Mezzogiorno. «Durante tutti questi anni», afferma il Re, «ho avuto due popoli da governare. Quel popolo che si chiama popolo e quel popolo che si chiama nobiltà. […] Questi due popoli in realtà sono quattro. Il popolo napoletano non è il popolo siciliano. La nobiltà napoletana non è la nobiltà siciliana. […] Potrei dimostrarvi che questi due popoli sono sei: la Chiesa della Capitale e quella di Sicilia sono gli altri due mondi con i quali fare i conti. E se volessi divertirmi, vi direi che questi sei popoli sono seicentosessantasei. Perché non c’è villaggio di Calabria o di Cilento che non vanti un suo primato e un suo problema ritenuto urgentissimo e assoluto». Schiacciato dal peso del potere e delle connesse responsabilità, Ferdinando trova diletto soltanto nei carteggi di storie minime che solerti funzionari scovano per lui negli archivi polverosi del Regno. E tra queste vicende private, è proprio la storia di Chiara e Alessandro ad interessare particolarmente il Sovrano, che avrà un ruolo decisivo nella sua conclusione.
Ruggero Cappuccio è principalmente un drammaturgo; l’amore viscerale che nutre per il teatro e le sue dinamiche traspare anche in questo libro. Non è un caso che due tra i momenti più felici del romanzo abbiano una stretta attinenza con il teatro. Il primo è il breve intermezzo che narra dello sbarco di Shakespeare a Napoli; si tratta di una vicenda di fantasia, costruita però con grazia e sapienza. Il secondo momento è rappresentato dalla “notte dei due silenzi”, in cui Alessandro e (il fantasma di) Chiara si avvicendano sul palcoscenico della Terrazza dell’infinito a Villa Cimbrone. Ed è davvero bizzarro che l’unico modo per conoscere la verità sia l’organizzazione di una vera e propria rappresentazione scenica. Il paradosso dunque si compie: il teatro, il luogo per eccellenza della fictio, finisce per trasformarsi nell’unico strumento possibile per la rivelazione della verità. Cappuccio, però, non ha voluto portare alle estreme conseguenze il paradosso, nella convinzione dell’insondabilità del reale. Ed è così che, alla fine, il dubbio non viene sciolto e la verità, che per un attimo sembrava far capolino oltre la tenda del palcoscenico, torna a nascondersi.
Lo stile merita una notazione particolare: colto, aulico e deliziosamente letterario, doti così rare nel panorama della narrativa nazionale contemporanea. La scrittura è ricca di raffinate descrizioni, densa di vivide suggestioni, a volte oscura e altre pronta ad aprirsi in squarci di luce abbagliante. Nessuna parola è scritta a caso, ma ciascuna ha un suo peso specifico, una giusta ponderazione di suoni e profumi. Cappuccio scrive con mano ottocentesca, ma con tutta la sensibilità e il tormento dello scrittore del Novecento: non deluderà quanti vanno alla ricerca del puro  piacere della lettura.

30 agosto 2016

"Il ragazzo rapito" di Robert Louis Stevenson: un classico dell'avventura

Sebbene ne esistano in commercio diverse versioni per i più piccoli, sarebbe improprio definire Il ragazzo rapito come un racconto per l’infanzia. È piuttosto un intramontabile romanzo d’avventura, da leggere a tutte le età, ma che richiede qualche nozione di storia inglese, specialmente sulle insurrezioni giacobite dei secoli XVII e XVIII. La vicenda è infatti ambientata nella Scozia ribelle degli anni successivi al 1746, insanguinata dai duri scontri tra clan rivali e dal conflitto tra giacobiti e lealisti. Prima di iniziare la lettura, consiglio quindi di documentarsi su queste complicate vicende; le informazioni contenute su Wikipedia sono più che sufficienti per farsi un’idea.
Classica è la trama: il diciassettenne Davide Balfour, orfano di entrambi i genitori, è l’inconsapevole beneficiario di una grande eredità, da dividere con il turpe zio Ebenezer. Quest’ultimo, avaro e meschino, fa rapire il nipote da alcuni loschi marinai per privarlo dei suoi diritti; l’obiettivo è quello di farlo vendere in America al mercato degli schiavi. Il brigantino su cui Davide è imbarcato, però, cola miseramente a picco durante una tempesta, sì che il ragazzo si trova di colpo affrancato dai suoi aguzzini, libero ma naufrago sopra un’isola deserta. A questo punto hanno inizio le sue lunghe peregrinazioni, sia da solo che in compagnia dell’amico Alan Breck, che lo porteranno infine a far valere i suoi diritti, nel più lieto dei finali.
La maestria di Stevenson non sta solo nella costruzione del complicato intreccio, ma soprattutto nelle meravigliose descrizioni dei luoghi; il romanzo si svolge quasi interamente all’aperto, tra cupi boschi e brulle brughiere, in cui il lettore viene catapultato. Altro punto di forza è nella definizione dei personaggi. Per essere un romanzo d’avventura, la loro psicologia è sufficientemente approfondita, senza risolversi nella semplice contrapposizione buono/cattivo. Anzi, ben potrebbe dirsi che Stevenson è attento nel far emergere il lato oscuro di ogni personaggio, persino del protagonista Davide o del suo amico Alan.
Il ragazzo rapito è un libro famoso, oggetto anche di una riduzione cinematografica. È considerato uno dei migliori testi di Stevenson, oltre che uno dei più celebri romanzi d’avventura di ogni tempo. Tuttavia, le lunghe digressioni storiche possono risultare poco comprensibili per il lettore che abbia scarsa conoscenza dei tristi eventi che sconvolsero la Scozia per tutto il corso del Settecento. Come già detto, consiglio di documentarsi prima di intraprendere la lettura.

14 agosto 2016

"Io non mi faccio condizionare dal sistema!": intervista a James Senese

Il grande sassofonista James Senese, fondatore e leader del gruppo jazz-rock Napoli Centrale, si è esibito a Torchiara (Sa) lo scorso 11 agosto, in occasione del festival itinerante Segreti d’autore. L’ho incontrato prima del concerto ed è stato così gentile da concedermi una bella intervista, in cui rivela molto di sé, della sua arte e della sua visione del mondo.

Domanda. Ciao James. Speriamo che le mie domande non siano come quelle del famoso film con Lello Arena…
Risposta. Non ti conviene farle. (Ridendo)

D. Perché tra tutti gli strumenti hai scelto proprio il sassofono? Come è nata questa passione?
R. È stata una scelta naturale. Era uno strumento di cui mi piaceva moltissimo il suono, la voce. L’avevo sentito, senza sapere cosa fosse, e così è nata la passione.

D. Quanti sassofoni possiedi? Ce n’è uno a cui sei particolarmente legato?
R. Ne ho solamente uno. Ne ho avuti tanti, ma ritengo sia meglio affezionarsi ad un unico strumento. Credo sia la scelta migliore, perché possedere dieci sassofoni, ad esempio, è una forma di megalomania. Invece devi affezionarti ad uno solo, che ti rimane e lo porti in tutti i concerti.

D. Che musica ascolti? Preferisci i classici, oppure ascolti anche musica contemporanea? E soprattutto, preferisci il vinile o il cd?
R. Ascolto sia la musica del passato che quella contemporanea. La musica del passato è quella che ci ha dato la nostra vitalità, la voglia di essere musicisti. Ma ascolto anche la musica del presente, in particolare quella d’avanguardia. Preferisco ascoltarla su vinile.

D. Sei un uomo di successo, che ha portato nel mondo un modo personale di fare musica. Come sei riuscito a non farti dominare dal successo, mantenendoti sempre saldo sulle tue posizioni?
R. Combattere il sistema è questo, non entrarci dentro. Il fatto è che io non mi faccio condizionare dal sistema. Il sistema vuole che tu fai delle cose secondo la sua logica, secondo il suo modo di vedere. Ma non deve essere così. Devi essere te stesso, ed io penso di esserlo.

D. Il rischio di chi lotta contro il sistema è quello di non riuscire mai ad emergere…
R. Il problema è crederci. Crederci e non farsi condizionare, perché vengono dei momenti in cui il sistema ti prende, ed è in quel momento che devi essere più forte e non farti prendere. Se tu credi alla tua dimensione, a quello in cui credi e a quello che fai, a quello che tu vorresti essere, allora tutto andrà bene. Bisogna essere assolutamente così, fino alla fine della tua vita, in poche parole. La vita dovrebbe essere un evolversi nella direzione che tu vorresti.

D. Una domanda sui Napoli Centrale. Mi ha sempre colpito la vostra originalità rispetto ad altri gruppi italiani degli anni Settanta. In particolare, mentre gruppi come gli Area o il Banco si occupavano della classe operaia, voi avete parlato della terra, dei braccianti meridionali, degli emigranti. Qual è la ragione di una tale scelta?
R. Perché noi veniamo dal popolo. Inoltre, la prima forma di vita è proprio legata alla terra, da cui noi veniamo. Il contadino è il primo uomo sulla terra che ha cercato di evolversi. Diciamo che adesso, però, c’è stata un’evoluzione nel nostro impegno: ora difendiamo tutta la parte debole del popolo, quella che non può difendersi. È stata una scelta naturale, legata alla dimensione in cui siamo nati.

D. Se i Napoli Centrale fossero nati oggi, avrebbero avuto lo stesso successo, oppure i tempi sono mutati e con essi quello che la gente vuole? Il vostro messaggio è ancora attuale?
R. Il tempo non cambia quasi niente, attenzione! Cambiano le generazioni, un po’ i modi, ma in realtà non cambia niente. Noi esistiamo da oltre quarant’anni e oggi abbiamo addirittura più successo di prima. Sembra strano, ma è così. Noi oggi giriamo tutto il mondo; si vede che abbiamo seminato bene! Quando le nuove generazioni vengono ad ascoltarci, ci ascoltano per quello che siamo nel presente, non vanno a vedere quello che siamo stati, perché è il momento quello che conta. Noi ci siamo evoluti mantenendo sempre il nostro stile. Quando riesci ad emergere, rimani sempre lì. Pensa ai Pink Floyd: loro sono lì, e anche se non fanno più dischi sono sempre i Pink Floyd. La stessa cosa vale per i Napoli Centrale: noi abbiamo fatto la rivoluzione, ed è rimasta.

D. Hai detto che hai girato il mondo. Tra i tanti artisti con cui hai collaborato, quali sono quelli che ricordi con maggiore piacere?
R. Il problema è che noi stiamo molto avanti, suoniamo avanguardia. L’unico con cui ho collaborato con piacere, perché sono entrato nella sua dimensione, è stato Pino Daniele. Al di là di questo, non mi eccita niente.

D. Se dovessi dare una definizione di te come artista, cosa diresti?
R. Sono uno vero, perché ho scelto di fare questa vita. Non ce ne può essere un’altra, e io la faccio con il cuore, con amore. Se non facessi questo, non lo so che cazzo farei. La mia è stata una scelta molto precisa, l’impegno è ventiquattro ore su ventiquattro. Prima viene questo e poi tutto il resto.

D. Il tuo nuovo disco si intitola O’ sanghe; che progetti hai per il futuro?
R. Il mio progetto è far capire agli altri che abbiamo perso una parte del nostro sentimento per colpa del sistema, ma anche per colpa nostra. Non riusciamo ad agire: a tutto quello che il sistema ci dice, noi rispondiamo sempre di sì. Perché crediamo che domani è un altro giorno, ma non è così. Serve un modo per poterci liberare da questa schiavitù.

D. E la musica è sufficiente per essere liberi?
R. Sì. Perché la musica ha realizzato importanti cambiamenti nel mondo. Tante cose importanti sono state cambiate per mezzo della musica. Chi vuol capire, capisca.
James Senese sul palco di Torchiara (11 agosto 2016)

11 agosto 2016

"Il trono di legno" di Carlo Sgorlon: il canto di addio della civiltà contadina

Il trono di legno è un romanzo particolare, non inquadrabile entro gli angusti confini di un genere. Può essere definito come lo struggente canto di addio dell’ancestrale civiltà contadina, travolta dall’avanzare della modernità. Al tempo stesso, è un elogio della bellezza del raccontare e dell’arte di inventare storie. I due aspetti sono strettamente collegati, in quanto quasi tutti i miti e le leggende sono nati in contesti rurali. Si pensi alle storie intorno al focolare, alle favole narrate dagli anziani nelle rigide serate d’inverno, oppure ai racconti che allietavano il duro lavoro dei campi. È questo il mondo che Sgorlon ha voluto rievocare nel romanzo, con viva partecipazione e un soffuso rimpianto per la sua scomparsa.
La vicenda è ambientata in quel fazzoletto di terra friulana che Sgorlon conosceva bene, nei villaggi di Ontans e Cretis spersi tra i brulli magredi e le sempiterne nevi delle Alpi. Il protagonista, Giuliano, è uno strano essere selvatico che sente di non appartenere al presente o al futuro, ma al passato, alla civiltà dei contadini e degli artigiani. Vive a Ontans assieme a Maddalena, che non è sua madre e neppure una parente, ma una donna che ha deciso di prendersi cura di lui per espiare una colpa del passato. Giuliano non sa nulla della storia della sua famiglia, che imparerà a conoscere attraverso dettagli che gli si riveleranno negli anni. Verrà così a sapere che il nonno, noto semplicemente come il Danese, ha avuto un’esistenza errabonda e avventurosa, quasi come il personaggio di un romanzo. Ritrovare il Danese, o almeno qualche traccia ulteriore della sua esistenza, diviene così il suo obiettivo. Giuliano, però, è un ragazzo irrequieto e proprio la sua inquietudine lo porterà ad allontanarsi dalla via maestra che aveva creduto di poter tracciare. Tale irrequietezza nasce dalla convinzione secondo cui la dimensione fenomenica è solo l’aspetto tangibile del reale, dietro il quale si cela una dimensione più profonda e vera, che non è tattile ma fantastica, inafferrabile eppure tanto più concreta. L’ambiguità si riverbera in ogni aspetto della sua vita, come nel rapporto con le donne: Giuliano, infatti, sa amare con la stessa intensità sia la materna e rassicurante Lia che la silvestre e sfuggente Flora.
Ben può affermarsi che Il trono di legno è un romanzo di formazione, perché Giuliano, alla fine del suo girovagare, acquista una nuova consapevolezza, la forma definitiva del suo essere. Egli rinuncia a girare il mondo, abbandonando il giovanile proposito di vivere all’avventura; preferisce rifugiarsi nell’antica magione di Cretis, unico luogo in cui riesce a placare le ansie che lo tormentano fin dall’infanzia. Comprende che la pienezza dell’esistenza può realizzarsi anche in un minuscolo villaggio nel cuore delle Alpi, microcosmo che raccoglie in sé il ricordo di molte vite passate e l'attesa del divenire. Giuliano sceglie di diventare un narratore, seduto sul severo seggiolone di legno così simile ad un trono contadino, circondato dai bambini che a bocca aperta ascoltano le sue meravigliose storie.
La fortunata opera di Sgorlon può dunque essere letta come un elogio della fantasia, che ha una valenza creatrice quasi divina. Le leggende e i miti hanno la stessa essenza della realtà, anzi sono l’unica realtà possibile. L’uomo che inventa storie, il narratore, possiede un dono straordinario, che fa di lui un eletto, elevandolo al rango di un dio. Sono le parole del protagonista a chiarire magistralmente questo concetto.
«La realtà e la vita sono soltanto un miraggio che non si lascia raggiungere; esse si possiedono soltanto nel ricordo, nella fantasia, nella parola e nel racconto. La vita era soltanto illusione, attesa di qualcosa che non veniva mai, e noi ombre sfocate e vane, scosse da assurde passioni. […] Attraverso la fantasia avrei potuto vivere e raccontare tutte le avventure del mondo, mentre viverle veramente, ora, mi avrebbe generato solamente un sentimento di noia e di ripetizione.»
 

20 luglio 2016

"Viaggio col padre" di Carlo Castellaneta: le ragioni del distacco

Carlo Castellaneta iniziò la stesura di Viaggio col padre a soli venticinque anni, anche se dovette attenderne altri tre per vederlo pubblicato (1958). Come tutti i romanzi d’esordio, risente di una certa acerbità, sia nelle intenzioni che nella struttura narrativa. Per quanto concerne il primo aspetto, è stato lo stesso autore milanese, ormai adulto, a ironizzare con bonario distacco sul suo primo romanzo, frutto della “fiducia di potere, ancora, nell’Italia del 1955 affamata di giustizia, cambiare il mondo con un libro”. Quanto alla struttura, la narrazione si dipana lungo due piani intersecantisi: quello presente del viaggio in treno e quello passato dei ricordi. Si tratta di una scelta non propriamente originale e quasi forzata in alcuni punti, ma che riesce funzionale allo scopo del racconto, conferendogli uniformità di fondo.
La trama può essere riassunta in poche battute. Un ragazzo intraprende assieme al padre un lungo viaggio in treno, da Milano a Foggia, per partecipare a un funerale. Tra i due aleggiano antichi dissapori, risalenti al tempo della guerra. Il loro non è semplicemente un conflitto generazionale, ma una propaggine privata della guerra civile che si è combattuta in Italia tra fascisti e partigiani. Il padre, convinto fascista, ha condotto la famiglia in rovina pur di non tradire i propri ideali. La moglie e i figli, inizialmente pieni di ammirazione nei suoi confronti, di pari passo con l’inasprimento del conflitto hanno acquisito una maggiore consapevolezza degli errori e degli orrori del regime, fino ad appoggiare, sia pure in modo silente, la causa partigiana. Conclusa la guerra, le tensioni a lungo covate sono esplose, determinando la disgregazione del nucleo familiare. A distanza di qualche anno, il figlio coglie l’occasione del viaggio in treno per conoscere il perché delle scelte del padre, del suo tenace aggrapparsi a ideali e valori sconfitti dalla storia, la sua cieca testardaggine nel non voler ammettere gli errori compiuti. E solo alla fine, quando il convoglio è ormai prossimo alla stazione di Foggia, la tensione viene sciolta in un chiarimento tanto desiderato quanto parziale.
Viaggio col padre è prima di tutto il resoconto di un dramma familiare, calato nel più vasto contesto del dramma nazionale della guerra civile. Allo stesso modo, è un romanzo di formazione individuale e collettiva, perché alla crescita del sentimento democratico nell’animo del protagonista corrisponde il risveglio di un’intera nazione.  È poi il libro della Milano operaia, fatta di palazzi rugginosi costruiti ai bordi delle massicciate, di piccole invidie e storie minime di periferia. Con questo romanzo Castellaneta inizia a imprimere il marchio di fabbrica della sua produzione successiva: la descrizione vivida e dolente della Milano popolare, un microcosmo in evoluzione che in pochi anni passa dalla miseria nera agli agi del miracolo economico. Figura esemplare di questa voglia di cambiamento è Ottavio, l’intellettuale comunista poi diventato capo-partigiano, che contribuisce in maniera determinante alla crescita del protagonista. Il personaggio di Ottavio sarà poi ripreso da Castellaneta nel successivo romanzo Una lunga rabbia, facendogli assumere le vesti del pittore Oreste.
Sebbene Viaggio col padre risenta dei limiti dell’opera prima, rimane comunque una lettura godibile e finanche avvincente. Echeggia qui e lì una certa enfasi nella volontà di costruire una storia di redenzione individuale e collettiva, perché audace era il compito che il giovane autore si era dato: cambiare con un libro le sorti d’Italia o, quantomeno, tentare una spiegazione degli eventi che seguirono alla caduta del regime.

4 luglio 2016

"Chiamalo sonno" di Henry Roth: le angosce del bambino emigrante

Parlare di Chiamalo sonno significa innanzitutto interrogarsi sul “caso Henry Roth”, come viene definito dalla critica. Henry Roth (1906-1995) è stato per lungo tempo autore di un unico romanzo. Quando Chiamalo sonno uscì, egli aveva ventotto anni ed era così convinto di aver trasfuso in quell’opera tutto quanto avesse da dire, da chiudersi in un silenzio durato quasi tre decenni. Iniziò a scrivere un secondo volume, ma si arrese dopo aver ultimato un centinaio di pagine, colpito da un oscuro male di vivere a cui sono state date diverse spiegazioni: la depressione, una forte delusione sentimentale, una crisi mistica, l’isolamento dovuto alle sue posizioni politiche. Fatto sta che Roth costruì intorno a sé un muro di silenzio, allontanandosi dal mondo culturale e persino dalla città, rifugiandosi nella quieta provincia americana. Solo intorno alla metà degli anni Sessanta, il libro, che aveva continuato a circolare in una ristretta cerchia di appassionati, venne ristampato negli Stati Uniti e poi in Europa, diventando un caso letterario e un long-seller, contribuendo alla riscoperta del suo autore.
Oggi Chiamalo sonno è considerato un capolavoro, perché, come ha osservato Mario Materassi nella postfazione all’edizione italiana Garzanti, è un vero e proprio «punto di coincidenza di tutto il Novecento» letterario e non, in quanto «il suo senso è un valore permanentemente rinnovantesi».
Il romanzo è ambientato negli Stati Uniti dei primi anni del secolo scorso, l’epoca dell’immigrazione di massa. David, un bambino ebreo nato in Austria, giunge assieme alla madre nella terra delle grandi opportunità, dove il padre si è già trasferito da un paio di anni. I genitori di David non potrebbero essere più diversi: dolce e piena di attenzioni la madre, duro e iracondo il padre. Il piccolo David vive con paura questo contrasto, che viene traslato dalle quattro mura domestiche al mondo esterno. Nella sua mente si fa strada una concezione manichea della vita, in cui ogni aspetto viene ad essere classificato secondo la rigorosa dicotomia bene-male. Il padre, le tenebre, la cantina e i coetanei rappresentano il male, l’oscurità fisica e morale da cui fuggire. Dall’altro lato, invece, c’è la madre, che agli occhi di David è il concentrato supremo di ogni bene. L’intera realtà viene trasfigurata attraverso gli occhi del bambino, che sono il privilegiato punto di osservazione scelto da Roth nella stesura del romanzo. Nelle pagine si alternano dati reali e immaginifici, in quanto l’intera narrazione viene filtrata e quasi inquinata dalle visioni di David, continuamente in bilico tra un mondo palpabile, duro e crudo, e una dimensione fantastica, rassicurante e onirica. Chiamalo sonno non è dunque propriamente un romanzo di formazione; sebbene vi sia una crescita graduale e sofferta del protagonista, nel finale si ascolta quasi un canto di resa, un totale rifiuto del dato reale in favore del sicuro rifugio rappresentato dall’abbraccio materno.
Il libro è un vivido ritratto dell’America del primo Novecento, un Paese in grande fermento per effetto di un’ondata migratoria che contribuirà a delinearne il volto moderno, il cosiddetto melting pot. Straordinario poi il linguaggio utilizzato da Roth, che alterna slanci lirici a chiacchiere da bar, mescola il turpiloquio col linguaggio alto, combina sapientemente l’inglese, lo yiddish e la babele di lingue parlate dagli immigrati, italiani compresi. Nel suo capolavoro, Roth è stato attento alla descrizione dei luoghi e dei tipi umani: i personaggi sono pochi, ma di indimenticabile spessore. Si pensi ad Albert, il padre di David, un uomo rude e violento, i cui improvvisi scatti d’ira sono talmente prorompenti da mettere in soggezione persino il lettore. Si rimane incantati, poi, dalla dolcezza di Genya, stupiti dalla sboccataggine di Bertha, entusiasmati dalla baldanza del giovane Leo.
E alla fine mi viene da dire che forse ha ragione chi ritiene che Chiamalo sonno rappresenti la summa di tutta la letteratura del Novecento: perché David è solo un bambino, ma incarna tutte le ansie e le angosce dell’uomo moderno, diviso tra il richiamo della tradizione religiosa e le blandizie del progresso, tra la paura dell’autorità e un’incontenibile voglia di ribellione.