28 ottobre 2017

"L’eredità di Eszter" di Sándor Márai: non si sfugge al proprio destino

Nei romanzi dell’ungherese Sándor Marai (1900-1989) ricorre spesso il tema dell’attesa di un destino che deve compiersi: è così nel celebre Le braci, nonché ne L’eredità di Eszter. L’ineluttabilità del fato non è tuttavia percepita con fastidio dai personaggi; essi piuttosto la vivono con rassegnazione, anzi con una quieta accettazione, perché a nulla varrebbe opporsi. «Ho fatto di tutto per mettermi in salvo, ma il nemico continuava a seguirmi. Ormai so che non poteva agire diversamente: siamo legati ai nostri nemici, che a loro volta non sono in grado di sfuggirci», afferma Eszter nel preambolo delle sue memorie.
Eszter abita nella casa che le ha lasciato il padre, assieme all’anziana parente Nuna; le due donne vivono modestamente, ma con dignità, grazie ai pochi risparmi e alla cura del piccolo orto. L’esistenza di Eszter è monotona, i giorni si accumulano l'uno dopo l’altro senza particolari variazioni sul tema; l’unico uomo che abbia mai amato, l’infido e menzognero Lajos, è sparito da vent’anni. Per quanto la loro storia d’amore sia stata tormentata e triste, lei sa che «quel senso di allarme continuo» provato a causa di Lajos è stato l’unico vero significato della sua vita. Il tempo ha ricucito le ferite, restituendole la serenità in cambio di una completa abulia affettiva. Un giorno però Lajos annuncia con una lettera il suo ritorno. Dalla missiva sembrerebbe animato da buone intenzioni, ma Eszter sa che tornerà solamente per riprendersi quel poco che non è ancora riuscito a sottrarle.
Lajos ci viene presentato come un uomo che «si era fermato a un certo stadio del suo sviluppo, era diventato vecchio senza mai perdere quello spirito goliardico da studente di legge, che non è particolarmente rischioso e non porta – ecco la cosa più triste – da nessuna parte». Il tempo ha imbiancato i suoi capelli e ha disegnato sottili rughe sul suo volto, ma non è riuscito a cambiarlo nel profondo. Egli è rimasto «un genio della menzogna», pronto a sacrificare tutto e tutti in nome di un’indefinita smania di vivere, che non ha altro scopo se non quello di distruggere gli altri per alimentare se stessa. Eszter ne è pienamente consapevole, tanto che arriva ad affermare che «la tua vita è stata un’unica grande menzogna; non potrò credere neanche alla tua morte, perché anche quella sarà un inganno». Eppure, la coscienza dell’imbroglio non riuscirà a salvarla da un destino ampiamente preveduto, ma ineluttabile. Eszter accetta ciò che il fato le riserva e si lascia docilmente spogliare di ogni avere e depauperare di ogni speranza; tuttavia, non per questo possiamo definirla sciocca. Marai costruisce Eszter come un’eroina stanca, saggia nella misura in cui non oppone un’inutile resistenza a quanto le è stato riservato da una forza superiore. Resta da comprendere se tale forza abbia o meno una valenza religiosa, ma io propenderei per una risposta negativa. Forse per Marai è la passione a governare le nostre esistenze, ma anche questa soluzione rimane dubbia. È davvero amore quello che venti anni prima ha avvinto Lajos e Eszter? Oppure è solo una meschina e umana macchinazione, creata dal deus ex machina Lajos, vero e proprio prototipo del mascalzone e del bugiardo? Il segreto non è svelato, tutto rimane confinato nel rapporto tra i due, al punto che il dubbio rimane anche una volta chiuso il romanzo. L’eredità di Eszter lascia addosso tanta amarezza, perché ci fa intendere quanto possano essere spietati e cedevoli i rapporti umani.
Marai è considerato uno dei grandi della letteratura mitteleuropea; nonostante abbia vissuto a lungo a Napoli e a Salerno, la sua fama in Italia è relativamente recente, grazie alla casa editrice Adelphi che ne ha tradotto e pubblicato le opere dopo la morte. Le sue doti di scrittore emergono con limpidezza ne L’eredità di Eszter, che oltre ad essere animato da una sotterranea profondità filosofica, brilla per la purezza dello stile e il piacere della lettura.

14 ottobre 2017

Un pugno di canzoni italiane da riscoprire

L’anno scorso Giorgio Canali ha dato alle stampe un album di cover, reinterpretando a suo piacimento alcune canzoni italiane poco conosciute e spesso dimenticate, che avrebbero meritato sorte migliore. Per gioco ho voluto ripetere l’operazione secondo il mio gusto, scegliendo alcune canzoni italiane meno note, da scoprire o riscoprire.

Lucio Battisti – No dottore (da La batteria, il contrabbasso, eccetera, 1976). Spulciare nel patrimonio che Battisti ci ha lasciato significa trovare canzoni meno o per nulla note, forse poco radiofoniche, ma che testimoniano la poliedricità di un cantautore che non deve e non può essere accostato unicamente a La canzone del sole. No dottore è il monologo, reso di fronte ad uno psichiatra o ad un giudice (non ci è dato saperlo), di un “pazzo” accusato di aver ucciso la propria fidanzata. Tra numerosi non ricordo e scampoli di lucidità, la canzone lancia domande che non avranno una risposta, insinua dubbi che non possono essere sciolti. Sofferto il cantato, che si apre nel ritornello in ampi spazi di luce.

Bluvertigo – Ebbrezza totale (da Metallo non metallo, 1997). Trovare le giuste parole per descrivere un brano dei Bluvertigo non è facile. Ebbrezza totale ti assale dalla prima nota, ti sconvolge dal primo verso («Questi fiori blu ci deviano») e quando ti lascia vorresti che ricominciasse immediatamente da capo. Elettronica e chitarre in giuste dosi, voce sopra la media.

I Califfi – Madre domani (da Fiore di metallo, 1973). Non poteva mancare un pezzo sentimentale e strappalacrime, nella più pura tradizione italica. Ho scelto questa canzone dei Califfi, appartenente al periodo della loro svolta progressiva. Madre domani, però, non ha nulla a che vedere con il prog, è una piacevole ballata dalla struttura tradizionale “strofa-ritornello-strofa-ritornello”, che tuttavia ha dalla sua parte un testo che mi ha sempre sinceramente emozionato.

Giorgio Canali & Rossofuoco – Orfani dei cieli (da Rojo, 2011). Canali è arrivato tardi alla carriera solista, dopo aver militato per anni nei CSI con la sua chitarra distorta. Assieme ai Rossofuoco ha tirato fuori dal cilindro canzoni meravigliose, in cui mette a nudo un’anima tormentata e una rabbia covata sin dalla nascita. In Orfani dei cieli, però, mette da parte l’incazzatura e i watt per raccontarci l’amore dal suo punto di vista: «come se non avessimo modi più letali di farci male / di innamorarci delle ragazze che dietro il bancone di un bar / ci danno da bere. / Come se fosse la prima volta che ci si innamora, / come se avessimo bisogno di imparare ancora, ancora, ancora».  

Circo fantasma – Vecchi amanti (da Ninna nanna per la classe operaia, 1997). Gruppo poco conosciuto dell’ondata rock italiana degli anni Novanta, i Circo fantasma hanno dato alle stampe un intenso album di impegno sociale, tra pezzi originali e cover (De Andrè, Springsteen). Vecchi amanti racconta di due persone che si erano amate durante la guerra e si incontrano di nuovo dopo decenni. Un testo ispirato e un’originale e struggente fisarmonica ne fanno un brano che avrebbe meritato ben altra fortuna.

Consorzio Suonatori Indipendenti – L’ora delle tentazioni (da Linea gotica, 1995). Uno di quei pezzi che necessitano di più ascolti per essere compresi, assimilati ed infine amati. Nove minuti pazzeschi, che iniziano in sussurro e terminano in un'orgia di chitarre distorte, con due voci stupende che si incrociano. Il testo, poi, è tra i più suggestivi scritti da Ferretti: «la casa, la chiesa a modo e per bene / campana che suona, la notte che viene, / cattolico decoro, cattolico decoro, cattolico decoro, / la luce si spegne. / Scaldano le braccia del peccato, / scaldano il freddo del firmamento, / che fredda è la notte».

Diaframma – Io amo lei (da In perfetta solitudine, 1990). Federico Fiumani è uno di quei cantautori dal repertorio vastissimo, praticamente sconosciuto al grande pubblico. Sceglierne soltanto una è un’ingiustizia, ma Io amo lei resta una delle canzoni migliori, imprescindibile in ogni concerto dei Diaframma. Dentro c’è la summa dell’arte del Fiumani: un testo mai banale che racconta una storia intrigante, la voce asimmetrica che si spinge fino all’urlo e un giro di chitarra che riconosceresti tra mille.

Marlene Kuntz – Infinità (da Ho ucciso paranoia, 1999). «La cosa più speciale / che mi potessi offrire / è un lampo di infinità, / che non mi fa dormire / e non mi fa vegliare. / Ora è per sempre ora». Bastano queste eteree parole a dire tutto. Un pezzo lieve ma intenso, quattro minuti perfetti.

Moda – Polvere (da Senza rumore, 1989). Una precisazione è d’obbligo: sto parlando dei Moda, gruppo culto della new wave italiana degli anni Ottanta, e non dei contemporanei Modà. Polvere non ha nulla a che vedere con i suoni cupi della new wave, ma è un perfetto gioiellino pop, arricchito dalle tastiere e da un’ottima interpretazione vocale di Andrea Chimenti. Radiofonico com’è, farebbe tuttora impallidire molti attuali singoli di successo.

Claudio Rocchi – Ho girato ancora (da A fuoco, 1977). È la canzone del riflusso, l’amaro resoconto della fine delle utopie, delle lotte e dei sogni. La generazione che voleva cambiare il mondo è finita annegata nella droga, nella violenza, nel terrorismo mascherato da lotta di classe. L’unità è diventata divisione e nessuno avrebbe saputo raccontarla con parole migliori di queste: «anche se in una foto / scattata un momento potrebbe sembrare / che noi tutti insieme siamo un esercito grande / che può se lo vuole riuscire a cambiare. / Ma dentro le tasche degli stessi vestiti / che tutti vestiamo, oggetti diversi ci dicono / la vera realtà che viviamo. / La pistola o la lira, la siringa o la mala, / la tessera o il fumo, la chiave di ferro, / il fumetto di sesso, la Gita, il Vangelo, / la bottiglia di whisky, il pane integrale. / E in un solo momento un esercito grande / diventano gruppi che guardando più in fondo / si scopron diversi, si scopron lontani, / si scopron nemici».

Alan Sorrenti – Vorrei incontrarti (da Aria, 1972). Quando uscì Aria, Alan Sorrenti era un cantautore quasi sconosciuto, ancora lontano dal successo di pubblico che avrebbe costellato la sua carriera a partire dalla fine degli anni Settanta. Il primo LP seguiva però una direzione precisa lungo la strada del sogno, trainato da una straordinaria prima facciata, in cui si dipanava una delle suite più riuscite del panorama progressivo nazionale. Il lato B si apriva invece con un breve gioiello, la delicata Vorrei incontrarti, canzone d’amore che profuma di Oriente e misticismo, viaggi in luoghi lontani e respiri d’incenso. Poesia pura i versi: “vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica, / vorrei incontrarti lungo le strade che portano in India”.
La copertina di Aria di Alan Sorrenti, grande disco da riscoprire

5 ottobre 2017

"Lettere di una novizia" di Guido Piovene: alle radici di un segreto rovello

In uno sperduto convento della campagna veneta, una giovane novizia di nome Rita Passi viene colta da atroci dubbi sulla propria vocazione ad un passo dal prendere il velo. Desiderosa di salvarsi da quella che considera una condanna, rivela le sue ambasce in un’accorata lettera indirizzata a don Giuseppe Scarpa, sacerdote che qualche giorno prima aveva fatto visita al convento. Inizia così un turbinio di missive tra una pluralità di persone, che cercano di dipanare una matassa, non solo morale, che si dimostrerà impossibile da sbrogliare; quello che sembrava essere semplicemente il naturale sommovimento di uno spirito giovane, finisce per diventare un increscioso caso di cronaca, tale da sconvolgere l’esistenza di quanti ne vengono a conoscenza. È questa, in parole povere, la trama del romanzo di Piovene, pubblicato nel 1941 e considerato un classico. Confesso che, quando il libro mi è capitato tra le mani, l’ho inizialmente considerato di scarsa attrattiva, ma ho dovuto ricredermi già dalla lettura della prima lettera. Il caso narrato da Piovene va oltre la tematica religiosa, per elevarsi a paradigma di studio della natura umana e della sua doppiezza. Parlando dell’ambiguità dell’uomo, il poeta gallese Dylan Thomas rivelava che servivano dieci paradossi per ricomporre in lui un’unica verità. In un certo senso, è questo il messaggio lanciato da Piovene: tutti i suoi personaggi hanno un fondo di ambiguità, che li conduce a giustificare le proprie azioni agli occhi degli altri, nella costante paura di un giudizio. Le loro azioni sono guidate dall’istinto, e questo li porta ad autoassolversi, a cercare negli altri (e nel lettore) una conferma della propria innocenza. Si pensi a quanto scrive Rita sull’amore, che sente «come precario e condannato, più una invenzione e specialità mia che un sentimento naturale e comune». Tale convinzione, mai scalfita da dubbi, la conduce agli errori che ne funesteranno la giovane vita.
Lettere di una novizia promette, pagina dopo pagina, la rivelazione di una verità che permane invece oscura. Chiuso il libro, rimane sospesa una domanda: qual è la verità? Quella torbida e ambigua narrata da Rita, oppure quella gravida di risentimento esposta dalla madre? Una risposta non è data, perché ciò che a Piovene interessa non è la scoperta del vero, quanto piuttosto l’accettazione dell’impossibilità di tale scoperta. Ma d’altronde la verità è sconosciuta agli stessi protagonisti. Nell’introduzione, Piovene scrive che «i personaggi […] hanno un punto comune: tutti ripugnano dal conoscersi a fondo; […] ognuno tiene i suoi pensieri sospesi, fluidi, indecifrati, pronti a mutare secondo la sua convenienza». Per questa ragione il romanzo non vive della classica dicotomia buono/cattivo; tutti i personaggi mentono, tutti cercano di giustificare le proprie azioni scaricando le colpe sugli altri e sul fato. La novizia Rita è l’emblema di questa ambiguità; è al tempo stesso vittima e carnefice, ingenua e maliziosa, al punto da soccombere a tale doppiezza.
In conclusione, Lettere di una novizia è il racconto epistolare di una crisi di coscienza, l’intimo resoconto di un segreto rovello in grado di sconvolgere le esistenze di quanti ne sono venuti a conoscenza. C’è poco da dire sulla qualità della scrittura. Piovene è un grande narratore e rimane un piacere leggere le quarantadue lettere che compongono il romanzo, sempre in bilico tra uno stile colto e la cruda cronaca dei tormenti del cuore.